Omelia tenuta alla XXXI Convocazione del Rinnovamento nello Spirito Fiera di Rimini
1. In un libro sui giovani e il nichilismo, pubblicato qualche mese fa, si legge testualmente nella introduzione:
“I giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali, che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui” (U. Galimberti, L’ospite inquietante – Il nichilismo e i giovani, Milano, ott. 2007, 11).
La terapia a questo male di vivere, causato dalla desertificazione di senso e dalla svalutazione nichilista di tutti i valori, starebbe – secondo l’autore – nello spostamento dalla cultura cristiana a quella pagana, ossia in un ritorno a quella che i Greci chiamavano “l’arte del vivere”, che consiste “nel riconoscere le proprie capacità e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura”.
Al riguardo si deve osservare che proprio su questo terreno – quello della ricerca della felicità – si è già giocata la partita decisiva tra paganesimo e cristianesimo, e – senza ombra di trionfalismo – va onestamente ammesso che il verdetto a favore della fede cristiana è stato ormai archiviato nel grande libro della storia. Al tempo in cui la nuova religione cominciava a diffondersi, la soluzione più comune alla questione della felicità era quella epicurea, secondo cui la felicità consisterebbe nell’assenza del dolore o imperturbabilità (atarassìa). Ma è stato proprio il paganesimo a mostrarsi generalmente scettico sulla verità del messaggio di Epicuro. E’ quanto risulta dal diffuso sentire popolare, quale è testimoniato, per esempio, dall’epitaffio di un sarcofago romano di età imperiale, in cui è lo stesso defunto che parla e dice:
“Finalmente sono evaso (dal carcere della vita) e me ne sono fuggito. Speranza e fortuna, vi saluto. Non ho più nulla da fare con voi. Prendete in giro qualche altro”.
Ma è stato il cristianesimo ad assestare il colpo mortale alla dottrina epicurea sia con la sua nuova visione della vita, del dolore e della morte, sia con la più tangibile, capillare e contagiosa testimonianza della gioia di vivere. Lo dimostrano le migliaia e migliaia di conversioni alla fede cristiana nell’era delle persecuzioni, un fenomeno sorprendente, dal momento che richiedeva nei nuovi convertiti la disponibilità al martirio, e che si può spiegare solo stabilendo un confronto tra l’atteggiamento di fondo del pagano, da una parte, e del cristiano, dall’altra, riguardo alla questione del dolore. Di fronte alla legge ineluttabile della sofferenza e della morte, il paganesimo si dichiara impotente – inutile sottrarsi, inutile ribellarsi – e non può fare altro che attestarsi su due estremi: o invitare a godere l’attimo fuggente (carpe diem) o spingere a sottomettersi volontariamente a un Fato cieco e inesorabile. Il cristianesimo invece non si rassegna a questa concezione e annuncia la felicità. Il vangelo di Gesù inizia con un grido di gioia: viene il regno di Dio! e beato è chi l’accoglie! Ma anche il vangelo su Gesù si riassume in un grido di gioia: è risorto! perché continuare a cercare tra i morti colui che è vivo?
2. Nel vangelo di oggi, nel giro di appena poche righe, Gesù parla per ben tre volte di gioia. Il brano è introdotto dalla formula solenne di rivelazione – “Amen, Amen, in verità, in verità vi dico”, che nel quarto vangelo ricorre per la bellezza di 25 volte. “In verità, in verità vi dico: voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia”. E poi, al termine del brano, la promessa viene ripresa e puntualmente confermata: “Il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia”.
La domanda che ora ci poniamo è la seguente: il messaggio cristiano è ancora in grado di mantenere questa promessa di gioia?
Prima però dobbiamo rispondere ad una domanda preliminare: in che cosa consiste la gioia? S. Tommaso dedica alla questione ben otto articoli della Summa teologica (I-II, q. 2) e in forma chiara e stringente passa in rassegna le offerte possibili che si presentano alla nostra felicità. Consiste forse nelle ricchezze? nella fama? nel successo? nel potere? nel benessere fisico? nel piacere? in qualche bene spirituale? in un qualsiasi bene creato? La risposta è scandita in otto no. Ogni no, più che un rifiuto, è una liberazione in vista di una felicità più grande.
Anche oggi la fede cristiana si assume il carico antipatico, ma salutare, di una severa pars destruens, attraverso una diagnosi impietosa delle micidiali malattie che minano la sanità di una gioia vera, sicura e duratura: affezioni che appartengono alla dolente litania dell’edonismo, dell’utilitarismo, del pessimismo. Non penso che noi ne siamo completamente al riparo, ma forse i virus da cui dobbiamo proteggere la nostra gioia hanno nomi meno volgari, ma non per questo meno tristi: narcisismo, perfezionismo, vittimismo, che fanno sempre rima con il nemico numero 1 della gioia: l’egoismo.
Più che soffermarci su queste patologie e sulle relative terapie, forse è opportuno riflettere, in positivo, sul messaggio cristiano che si accredita come il vademecum di una felicità doc, in quanto permette di dare alla nostra esistenza un senso pieno, liberante ed esaltante. Basta ripercorrere la formula del credo per ricavarvi almeno otto sì – otto sante ragioni (!) – per vivere già in questa vita nella gioia. Siamo così in grado di anticipare la conclusione: alla fine della nostra riflessione, potremo a buon diritto rinnovare il nostro credito al cristianesimo come la via più sicura e praticabile verso la felicità.
3. Ripercorriamo il credo, declinandolo come l’indice degli otto capitoli della perfetta letizia.
Noi crediamo nel Dio-Amore, in un Dio che è Padre e che ci ha creati per amore, non per il suo tornaconto, non per “fare i suoi affari”, ma per farci felici. Perché Padre, non è un vecchio monarca, relegato in una gelida estraneità. E neppure il grande orologiaio dell’universo, senza sogni né passioni, con un computer al posto del cuore. Ognuno di noi può dire: ci sono, perché sono stato pensato, voluto, amato, chiamato per nome. Per il fatto stesso che vivo, è segno che è bello che io viva. E questo Padre che “in una notte nera, su una pietra nera, vede una formica nera e la ama”, che si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, che conta perfino i capelli del mio capo, si dimenticherà forse di me? Questo Dio Creatore, che fa funzionare stelle e galassie, non farà funzionare anche la mia vita? Se crediamo in un Dio Padre onnipotente e misericordioso, che può fare infinitamente di più di quanto possiamo augurarci per la nostra felicità, perché tanta paura nell’abbandonarci al suo amore?
Noi crediamo in Gesù Cristo, che è morto per noi: per “noi” non in senso cumulativo – “tutti e… nessuno!” – ma distributivo: per tutti e per ciascuno. Poiché l’amore è personale o non è, ognuno di noi può dire con s. Paolo: “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Se “a tutti i figli d’Eva /nel suo dolor pensò” (Manzoni), posso affermare che dall’alto della croce, il mio Redentore mi ha guardato e si è offerto per la mia salvezza, cioè per la mia felicità. Ed è risorto: per trasformare ogni atomo del mio dolore in un atomo d’amore; per cambiare la mia fine in una vita senza fine. Perciò noi crediamo che non esiste male per quanto grave e insopportabile, non esiste situazione per quanto pesante e negativa che non possa essere riscattata da un bene e da una gioia infinitamente più grande. Perché dunque angosciarci?
Noi crediamo nello Spirito Santo: è il tenerissimo e fortissimo Consolatore, che ci consola in ogni nostra tribolazione, e anche quando non ci salva dal dolore, ci salva però sempre nel dolore. E’ lo Spirito di Gesù, che non ci fa mai sentire né schiavi né stranieri né orfani, ma ci fa provare la gioia stessa di Gesù il quale “esultava di gioia per virtù dello Spirito santo” (cfr Lc 10,21) e come lui ci fa gridare di gioia: “Abbà, Padre!”. Se il Paraclito ci rende altrettanti paracliti e consolatori, perché dunque rattristarci?
Noi crediamo la Chiesa, dove si realizza il miracolo della Pentecoste: il miracolo di vivere con un cuore solo e un’anima sola, con una carità che non è invidiosa, non tiene conto del male ricevuto, si compiace della verità, tutto crede e tutto sopporta. Nella Chiesa non si spegne mai l’Alleluia stupito e commosso per le grandi meraviglie operate dallo Spirito nella storia, ma non si smorza neanche il Te Deum umile e fiducioso per le continue sorprese della sua grazia nel presente e nel futuro. La mia vita, guardata con lo specchietto retrovisore della fede, mi appare come un piccolo grande capolavoro in corso d’opera: posso dire mille volte grazie per quanto il Signore ha già operato e mille ed una volta grazie per quanto ancora certamente farà. Perché dunque non rallegrarci?
Noi crediamo la comunione dei santi e in particolare della regina di tutti i santi, la Vergine Maria, causa della nostra gioia. La sua nascita ha rallegrato il mondo, anche se “i giornalisti di quel tempo non ne hanno saputo nulla!” (Bernanos). Il suo parto verginale ha irradiato su noi Cristo, luce che fa brillare la vita. Il suo glorioso transito non l’ha allontanata da noi, ma l’ha resa ancora più vicina, come sorella e madre premurosa, sempre pronta a ridarci la nota del Magnificat, il sì della fede, ogni volta che gli occhi ci si riempiono di lacrime. Se Maria veglia costantemente su di noi e rivolge a noi esuli figli d’Eva i suoi occhi misericordiosi, perché dunque non camminare nella fiducia e nella gioia?
Noi crediamo la remissione dei peccati: crediamo che dove è abbondato il peccato, sovrabbonda sempre la grazia (cfr Rm 5,20); crediamo che, se anche il cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore (1Gv 3,20): perché dunque non gioire ed esultare?
Noi crediamo la risurrezione della carne: sappiamo di essere già passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Io credo, risorgerò, e “tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto” (S. Francesco). Mentre camminiamo in questa valle di lacrime, noi aspettiamo la risurrezione dei morti: se nell’andare si va e piange, perché dunque non tornare con giubilo portando i nostri covoni?
Noi crediamo la vita eterna: la fede nel paradiso rivela che i nostri sforzi di crescita, i nostri slanci di bene, i nostri semi di pace non andranno perduti. L’esistenza della beatitudine eterna ci dice che vale la pena di vivere e lottare per l’amore sempre, anche in un mondo in cui l’odio e il male sembrano invincibili. Che ha senso amare la terra, assumerne i pesi, lavorare per renderla migliore. Perché allora non rallegrarci sempre, visto che siamo chiamati a rallegrarci per sempre?