Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della Messa della Notte
Lasciate, sorelle e fratelli tutti, che io vi rinnovi il più cordiale benvenuto a questa celebrazione. La vostra presenza mi dice che siete ancora sensibili all’incanto del Natale. In effetti se siete qui è perché il suo segreto vi riguarda. Permettetemi allora di far risuonare un’altra volta ancora, sotto le volte imponenti della nostra Cattedrale, il messaggio dell’angelo ai pastori, che ha squarciato il silenzio della notte di Betlemme:
“Non temete: ecco, vi porto una bella notizia, che procurerà una grande gioia a tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”.
1. La sproporzione tra l’importanza dell’evento e la povertà del segno, offerto per illuminarne il senso, è di uno stridore acuto. Il segno è quanto di più normale e ordinario possa accadere sotto il cielo: un neonato che vagisce, avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. Ma proprio questo bambino, figlio povero di poverissima madre, è il Salvatore del mondo. Questa è la notizia straordinaria che oggi noi non siamo invitati semplicemente a rievocare come un ricorrenza immancabile del calendario, ma siamo convocati a celebrare. Non si tratta solo di un pur commovente ricordo, ma di un mistero, di un avvenimento imbevuto di divina presenza, la cui “energia” salvifica non si è ancora esaurita né mai si esaurirà.
Ma noi oggi sentiamo veramente il bisogno di salvezza? Il progresso della scienza e della tecnica ci ha messo nelle mani le chiavi per accedere ai segreti dell’universo e della stessa costituzione dell’essere umano. Ormai siamo in grado di sconfiggere molte delle malattie che un tempo terrorizzavano l’umanità: la peste, il vaiolo, il colera, la tubercolosi. Particolarmente significativi i progressi della genetica, che, scoprendo la mappatura del genoma umano, ha posto le premesse per intervenire sui geni e correggere “dall’interno” gli eventuali errori o le degenerazioni della “natura”. Certamente ci ritroviamo con una scienza medica capace di vincere molte battaglie, ma incapace di vincere la guerra: quella contro l’ultimo nemico, la morte.
Ritorna comunque la domanda: veramente l’uomo del ventunesimo secolo, ormai inequivocabilmente adulto per la sua maturazione storica e la sua crescente potenza nei confronti del cosmo, non ha più bisogno di salvezza? In realtà ognuno si scopre ferito da una divisione insanabile e sperimenta una dolorosa lacerazione all’interno del proprio cuore. Confessava san Paolo:
“Io sono un essere debole, schiavo del peccato. So infatti che in me, in quanto uomo peccatore, non abita il bene. Certo, in me c’è il desiderio del bene, ma non c’è la capacità di compierlo. Infatti io non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio” (Rm 7,14b-15.18-19).
Così l’uomo si trova diviso in se stesso, si ritrova del tutto incapace di porsi, da solo, al riparo dagli insulti del male. In sostanza, ogni “Io” si riconosce prigioniero del proprio io: è come se ognuno si fosse incatenato con le proprie mani e avesse gettato la chiave del lucchetto dalla finestra.
2. “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio” (Gal 4,4ss).
Il messaggio del Natale si riassume tutto in uno sguardo: se guardiamo con commosso stupore al Bambino di Betlemme, riusciamo a rispondere alle domande capitali che pungono il nostro cuore: come è fatto Dio? chi siamo noi? chi sono io? cos’è il mondo che ci ospita?
Alla prima domanda: come è fatto Dio? il Bambino di Betlemme ci risponde: Dio è fatto tutto di amore, e di amore di Padre. Il suo Spirito ci persuade nell’intimo che Dio è nostro padre-papà, non un padre-padrone, non un sadico nemico della nostra gioia, un irriducibile antagonista della nostra piena realizzazione, un geloso concorrente della nostra insaziabile libertà. Sappiamo che la prima cosa che Gesù insegnò ai suoi discepoli fu proprio quel nome che risultava allora irriverente e inaudito: Abbà, Babbo mio. Nel colloquio con Dio Gesù usa il linguaggio familiare dei bambini piccoli con il loro papà, non adotta il linguaggio solenne e formale dei rabbini, che chiamavano Dio, Signore. Gesù è felice del Padre e perciò è contento di tutto. “Abbà… sia santificato il tuo nome!”. E’ disposto a ogni obbedienza (“Abbà … sia fatta la tua volontà”). E’ capace di ogni affidamento (“Abbà… nelle tue mani affido la mia vita”). Gesù è pienamente felice del suo Abbà e sa bene che il Padre è felice di sentirsi chiamare da lui Papà mio. La parola felice ha la stessa etimologia di molte altre parole legate all’esperienza della generazione, come femmina, feto, figlio, fecondo, ed evoca lo stato di appagamento, di sicurezza tranquilla, di irresistibile abbandono che il bambino prova tra le braccia della mamma, quando viene nutrito e cullato sul suo seno. Cosa dobbiamo fare allora? Condividere i sentimenti del Figlio e pregare, lasciandoci afferrare da quel fiotto di stupore che lo Spirito del Figlio fa scaturire dal nostro povero cuore.
Riprendiamo la seconda domanda: ma noi chi siamo? Risponde san Paolo:
“Noi non abbiamo ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma lo Spirito di Dio che ci fa diventare figli di Dio, e ci permette di gridare Abbà, Padre”.
Siamo figli e dunque fratelli tra di noi, non indifferenti gli uni verso gli altri, non concorrenti per prevalere gli uni sugli altri, non ostili e antagonisti per lottare gli uni contro gli altri. E’ nella cornice e nello spirito della filialità che ci lega al Padre e della fraternità del noi, che è possibile liberarsi dalla dittatura dell’io. E’ una liberazione intima e radicale. La salvezza che Cristo è venuto a portare agli uomini e alle donne che incontra, mira a riconciliarmi con me stesso. Per potermi accettare, ho bisogno di sentirmi riconosciuto e amato. In mancanza di questo amore, cerchiamo di sfuggire alla nostra vera realtà, mascherandoci ai nostri stessi occhi. O, peggio, finiamo per giudicare, con spietata rigidità, i nostri difetti e i nostri errori. Solo il riconoscimento di un altro – e in definitiva dell’Altro con l’A maiuscola – ci restituisce la nostra obiettiva identità e la libertà di riconoscerci imperfetti senza disperare. Riscoprire il volto di Dio nella propria vita significa, da questo punto di vista, essere messi in grado di guardare il proprio volto senza amarezza e senza angoscia, ma con gratitudine e con umile, infrangibile fiducia.
Infine, quale fascio di luce proietta il Natale sul creato? Ancora una volta è san Paolo a illuminarci: “Il creato sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21). E’ vero: senza l’uomo la creazione sarebbe un palcoscenico senza attori. Tuttavia il gemito che sale dalle viscere del creato non è da leggere come il rantolo dell’agonizzante, ma va tradotto nel grido della partoriente, un gemito che porta la vita. Grazie alla fede nell’incarnazione, nel cristiano resiste l’insoddisfazione dell’incompiutezza, ma al tempo stesso germoglia in lui la certezza del compimento. E si instaura, così, quella fraternità cosmica, di cui Francesco d’Assisi è stato l’insuperato cantore. Con l’incarnazione del Figlio di Dio, possiamo anche noi chiamare fratello il sole, il fuoco, il vento. E sorella la luna, l’acqua e perfino la nostra morte corporale. Sono stati questi i doni che Gesù è venuto a portarci.
Potevamo aspettarci qualcosa di più dal Natale di Gesù Cristo, nostro Salvatore?
Rimini, Basilica Cattedrale, Natale 2016
+ Francesco Lambiasi