Omelia del Vescovo nella Messa delle Palme
Il segreto di una vita si raggiunge nell’ora della morte. E’ successo così anche per Gesù. Il suo essere è stato davvero un essere-per-la-morte: una espressione da non intendersi in senso fatalistico. Per Gesù la morte non è per nulla una crudele, implacabile fatalità, fissata a priori da un destino cinico e baro. E’ piuttosto la sua libera e gratuita risposta d’amore alla gratuita e libera chiamata rivoltagli dal Padre ad amare fino alla fine. Per questo il Nazareno ha vissuto la morte non tanto come la fine della sua vita fisica, quanto piuttosto come il fine e il supremo compimento della sua intera esistenza. L’essere-per-la-morte di Gesù non può essere neanche inteso in senso masochistico, come una ricerca morbosa di quel perverso piacere che si vorrebbe ottenere attraverso il dolore. Gesù, andando incontro alla morte, non ha cercato il patire – né tantomeno il piacere del patire – ma l’amore al Padre suo e all’umanità tutta.
Il racconto della passione di Gesù secondo Matteo rispecchia fedelmente il senso della sua missione: Gesù è il Figlio di Dio venuto a dirci il volto del Padre e a darci tutto il suo in-credibile amore, un amore tenero e tenace fino alla morte. Fin dall’inizio, il racconto di Matteo si snoda di scena in scena, mettendo costantemente in risalto la figura di Gesù come il giusto ingiustamente perseguitato. Lo stesso sinedrio non trova motivi per condannarlo, e deve ricorrere a false testimonianze. Giuda, l’oscuro traditore, riconosce di aver “tradito sangue innocente”. Pilato è l’ambiguo uomo dell’apparato: in lui la ragion di Stato prevale sulla giustizia. Appena vede profilarsi il rischio di un tumulto, nonostante l’intervento dietro le quinte della moglie, abbandona Gesù al suo destino. La folla perennemente ondulante up and down, alla domanda “Ma che male ha fatto?”, non ha altra risposta se non la rabbiosa, compulsiva richiesta di crocifiggere quell’uomo mite e generoso.
Ci sono poi dei particolari nel racconto di Matteo, in apparenza marginali, ma sono delle precise pennellate che aiutano a fissare la notizia scandalosa eppur sempre lieta della croce. Ne riprendiamo qualcuno. Una volta giunti al Calvario, a Gesù viene pietosamente offerta una bevanda inebriante per attenuare gli spasimi della crocifissione. Ma Gesù “assaggiatala, non ne volle bere”. Egli vuole offrirsi a Dio e all’umanità in piena lucidità, e non sotto l’effetto di narcotici, e analgesici. Inoltre, come Marco e Luca, anche Matteo insiste sulla derisione di Gesù, ma precisa il bersaglio degli oltraggi, delle beffe e invettive scagliate contro il Crocifisso: è la sua filiazione divina. Nelle grida scomposte che si levano dai passanti, dai gran sacerdoti, dai due ladroni, ancora riecheggia la stessa parola di Satana, risuonata nel deserto, all’inizio della missione pubblica di Gesù: “Se sei Figlio di Dio” (Mt 4,3.6 e 27,40.43).
Ecco lo scherno più atroce lanciato contro il Crocifisso: se davvero fosse il Figlio di Dio, certamente Dio lo libererebbe dagli artigli della morte. Ma se non può salvare se stesso, è segno che la sua pretesa di essere il Figlio di Dio viene automaticamente falsificata. Se non riesce a schiodarsi e a scendere dalla croce, questo significa che la sua presunta comunione con Dio è in realtà una squallida menzogna. E invece, senza né saperlo né volerlo, quanti sbeffeggiano rabbiosamente il Crocifisso, in realtà manifestano la profonda verità di Gesù. Proprio perché ha rinunciato a salvare se stesso, Gesù è abilitato dal Padre a salvare tutti i peccatori del mondo e della storia… Proprio perché, a differenza di molte preghiere anticotestamentarie, Gesù non invoca da Dio né giustizia né amara vendetta, ma presenza e rassicurante compagnia… Proprio perché muore non imprecando contro mandanti ed esecutori della sua iniqua condanna, ma pregando il suo Abbà di perdonare tutti… Proprio perché, nel momento in cui si è sentito affettivamente abbandonato dal Padre, Gesù si è effettivamente abbandonato a lui… Proprio perché perde se stesso, può raccogliere i figli di Dio che erano dispersi… Proprio per tutto questo, Gesù non è il capro espiatorio sul quale si scaricherebbe l’implacabile ira di un inflessibile giudice divino, ma è l’agnello pasquale che prende su di sé e porta via il peccato del mondo.
A questo punto Dio tace. Ormai non c’è più bisogno di parole. L’ultima parola, ora, rimane a Dio. E Dio Padre risponderà, ma dopo. Al terzo giorno…
Chiediamo a Maria che in questi santi giorni ci svegli dal letargo e ci aiuti a non rimanere indifferenti al dolore del Figlio crocifisso e dei tanti suoi figli crocifissi della storia.
Rimini, Basilica Cattedrale, 9 aprile 2017
+ Francesco Lambiasi