Omelia del Vescovo per la sesta Domenica di Pasqua (anno A)
Da quando siamo al mondo, ci portiamo in cuore un sospiro intrattenibile: leggero come un soffio, ardente come una fiamma. Poter vivere in piena, appagante comunione con Dio! Poter camminare in solidarietà e pace da fratelli! Ma si può?
Da quando abbiamo incontrato Gesù, ci palpita in petto l’impeto prepotente di un sogno tenace, avvincente. Poter vivere come Lui! Poter nutrire i suoi stessi sentimenti, condividere i suoi stessi pensieri. Poter rivivere i suoi stessi atteggiamenti a favore di piccoli e poveri, a difesa di peccatori e prostitute, a beneficio di lebbrosi e ‘scartati’. Ma si può?
Da quando abbiamo frequentato qualche comunità cristiana in cui abbiamo sperimentato una rete di relazioni limpide e solide. Da quando abbiamo ‘testato’ e gustato una fraternità non idilliaca o euforica, ma autentica e gioiosa, ci siamo sentiti percuotere da una incontenibile esigenza di comunione. Poter vivere e agire con cuore che pulsa non per frantumarsi nella polemica. Non per alienarsi nella solitudine. Piuttosto per realizzarsi nel dialogo. Ma si può?
Sì, si può. Non per nostre ipotetiche capacità o per presunti nostri meriti. Non grazie alla somma algebrica dei nostri sforzi sempre troppo scarsi o di qualche nostro, purtroppo, fallace tentativo. Sì, si può, grazie alla grazia dello Spirito Santo. Grazie al suo soffio creativo. Alla sua presenza vigorosa e discreta. Grazie alla sua azione libera come il vento, consolante come il balsamo di una compagnia fedele e affidabile.
Ma noi ci crediamo davvero allo Spirito Santo, o ci limitiamo a nominarlo in qualche frettoloso, residuale segno di croce? Lo pensiamo davvero presente e operante, mite e audace, fortissimo e dolcissimo? Siamo davvero fermamente convinti che se Lui non viene, la grazia del Risorto non ci ricrea, la nostra umanità non si rinnova, la nostra comunità non si rigenera? Che se il Paraclito non scende, Gesù si riduce a un grande personaggio del passato remoto. La Chiesa a una pietosa ONG. La liturgia a una patetica messinscena. L’autorità ecclesiale a una dominazione tirannica. Il nostro agire a una morale da schiavi. Il povero a oggetto “scarta e getta”…
Lo Spirito santo è il grande regalo di Pasqua. Gesù ci aveva donato tutto: la sua parola luminosa e confortante, la sua opera benefica e misericordiosa. Ci aveva consegnato perfino il suo corpo e il suo sangue. Cosa gli restava da darci? Il suo dono più intimo e personale. Il suo stesso Spirito. La luce folgorante delle sue parole. Il motore potente delle sue azioni. Il regista geniale della sua opera. Il Risorto ci ha puntualmente donato il suo Spirito d’amore la sera di Pasqua, quando è entrato a porte chiuse nel cenacolo. E con le mani aperte e piagate, ha soffiato sui suoi discepoli e ha detto loro: “Ricevete lo Spirito Santo”.
Ora mi piacerebbe parlare della sua opera riconciliante e rinnovatrice. Mi limito alla sua azione uni-ficante. Da Adamo alla torre di Babele, la storia umana sembra tutta un cammino inesorabilmente avviato verso la divisione: le lingue si confusero e gli uomini si dispersero. Ma a Pentecoste – con l’arrivo dello Spirito – inizia l’irreversibile inversione ad U: uomini di lingue diverse incominciano a intendersi e a ritrovarsi. A Babele una unità fondata su falsi presupposti si infrange. A Pentecoste, per opera del Paraclito, le fratture si ricompongono. E questo per due motivi. Primo, perché lo Spirito opera la ricomposizione nella libertà e nel consenso, non nella violenza e nella costrizione. Secondo, perché si tratta di una comunione attorno alla Parola ispirata dallo Spirito. Attorno alla verità, non alle proprie opinioni. Attorno alla carità, non ai propri interessi e meschini compromessi.
Ecco l’opera dello Spirito. Fondere senza confondere. Distinguere senza dividere. Uni-ficare senza uni-formare.
A Pentecoste nasce la Chiesa, e la Chiesa nasce e cresce con la passione dell’unità. Ma è una comunione sempre incompiuta e delicata. Non è mai un pacifico possesso. E’ sempre un miracolo prezioso, ma fragile e precario.
Un dono da invocare umilmente.
Da custodire gelosamente.
Da coltivare instancabilmente.
Rimini, 17 maggio 2020
+ Francesco Lambiasi