Chiamato a vigilare, attendere, evangelizzare, benedire
Omelia tenuta dal Vescovo per l’ordinazione presbiterale del diacono Eugenio Facondini
“Voce di uno che grida nel deserto”: il silenzio vasto e intimorito del roccioso deserto di Giuda non riesce ad inghiottire la voce ruvida del Battista, ma la rilancia con eco fragorosa fino a percuotere menti e cuori di gente che accorrono a fiumane lungo il Giordano per farsi battezzare. Fratelli e Sorelle, siamo ai primi vespri della II Domenica di Avvento, e il Signore sta per farci l’imparagonabile dono di accogliere nel nostro presbiterio un nuovo sacerdote, il diacono Eugenio Facondini. Carissimo Eugenio, quando, il più a lungo possibile, ricorderai con cuore grato e commosso questa giornata, non potrai dimenticare che l’avevi cominciata da diacono, alla luce limpida e calda dell’Immacolata concezione di Maria, e l’avrai terminata da presbitero, nell’ascolto dell’impellente messaggio di Giovanni il precursore: “Preparate la via del Signore!”.
E’ da domenica scorsa che abbiamo iniziato il cammino d’Avvento, ed è proprio ridisegnando la filiera delle quattro tappe di questo tempo forte dell’anno liturgico che vorrei provare a scolpire il profilo del presbitero come l’uomo dell’Avvento.
1. Domenica scorsa, sulla soglia del nuovo anno liturgico, abbiamo incontrato Gesù che ci ha molto consolato. “Risollevatevi e alzate il capo: la vostra liberazione è vicina”, ma subito ci ha messo in guardia: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. E infine ci ha consegnato la parola d’ordine per il tempo della Chiesa: “Vegliate!”. Ecco il primo verbo dell’Avvento – vigilare -, ed ecco il primo tratto dell’identikit del prete: l’uomo della vigilanza.
Vigilate! E’ un grido che Gesù trasmette ai discepoli, che poi gli apostoli hanno rilanciato ai loro successori, e così una generazione lo consegna all’altra come nel passamano di un testimone, come il segnale luminoso che una volta le sentinelle mandavano da una torre all’altra, per avvertire dell’arrivo del re.
Vigilare: con la sua costellazione di sinonimi – vegliare, sorvegliare, stare in guardia, tenere d’occhio – questo verbo occupa tutta intera l’esistenza del prete, il quale non può mai permettersi di abbassare la guardia.
Vigilare sul gregge è compito indelegabile del pastore, ma prima che sul gregge il pastore deve vigilare su se stesso, come raccomanda Paolo ai presbiteri di Efeso: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio… Vigilate!” (At 20,28.31). Il pastore deve dunque vigilare sulla tenuta di quel baricentro della propria vita, che è l’amore per il Pastore grande delle pecore. “I pastori – diceva s. Agostino – devono essere messi in guardia dalle parole che Cristo ripete con insistenza: Mi ami tu? Pasci le mie pecore (cfr Gv 21,17), che significano: Se mi ami, non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, e pascile come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria non la tua, il mio dominio non il tuo, il mio guadagno non il tuo” (Tratt. 123,5).
Vigilare su se stesso, per il pastore, significa ‘ravvivare’ il fuoco del dono di Dio che è in lui “mediante l’imposizione delle mani” (2Tm 1,6), dove per dire ‘ravvivare’ il testo greco ha un verbo che significa letteralmente “riattizzare il fuoco sepolto sotto la cenere”. E’ la cenere dell’assuefazione e di una monotona, annoiata abitudine che rischia di far andare il pastore ‘in automatico’. Un rischio che può essere superato solo se il pastore vigila costantemente sul fuoco acceso nel suo cuore il giorno dell’ordinazione. In effetti il Signore vuole sacerdoti innamorati non funzionari; non cerca impiegati, ma discepoli infuocati e ardenti.
Vigilare su se stesso significa per il pastore interrogarsi senza darsi pace sull’altro grande fuoco che non deve assolutamente mai spegnersi nel proprio cuore, ed è il fuoco della carità pastorale, ossia l’amore gratuito, fedele e oblativo per la Chiesa amata con cuore sponsale. E’ in questo orizzonte che si colloca la scelta generosa e coraggiosa della castità consacrata. Infatti la sessualità racchiude in sé un appello, non un destino; è un invito ad amare la comunità cristiana con cuore indiviso, senza dedicarsi a nessuno in modo esclusivo, senza mai programmare il proprio futuro, senza mai ‘puntare’ su una parrocchia più attraente o su un settore più gratificante di un altro, ricordando sempre di avere scelto Dio e non le ‘cose’ di Dio. Castità non è il contrario di amore concreto e gioioso, ma piuttosto il contrario di amore morboso e possessivo. E obbedienza al Vescovo non è rinuncia alle proprie capacità, talenti e attitudini, bensì intelligente, appassionata disponibilità ad accogliere la comunità cristiana che ci è stata affidata per servirla e non per asservirla alle proprie mire padronali, senza mai inquinare la purezza della carità pastorale con gelosie e meschine ambizioni. La comunità che ci viene assegnata dall’obbedienza non va vista come un premio o come un peso, ma va accolta come un dono gratuito e immeritato. E non va mai ‘usata’ in funzione della propria realizzazione. La ‘destinazione’ ad un ministero pastorale non può mai diventare autodestinazione.
2. Raggiungiamo ora più velocemente le altre tappe dell’Avvento. Nella seconda, quella di stasera e di domani, giganteggia davanti a noi la figura del Battista con il suo appello accorato: “Convertitevi, cambiate modo di pensare, modo di agire e di vivere!”. Con queste ed altre simili parole Giovanni si premurava di risvegliare, educare e accompagnare l’attesa del popolo. Ecco un altro verbo tipico dell’Avvento ed ecco un altro tratto distintivo della spiritualità del prete: è il verbo attendere.
Oggi noi viviamo nella cultura radicale che ha trasformato le pulsioni in desideri, i desideri in bisogni, i bisogni in diritti, e ci vediamo ridotti a vivere una vita piatta, senza slanci e senza scatti in avanti né grandi passioni. Viviamo di piccoli futuri, al massimo ci domandiamo cosa faremo sabato notte o dove andremo in vacanza la prossima estate. E non aspettiamo più nulla, tanto “peggio di così…”. Ed ecco allora il bisogno di porsi le domande decisive della vita: da chi è abitato il mondo dei miei desideri? A che cosa rivolgo i miei aneliti più profondi e vitali? Quali attese orientano e determinano le mie scelte, da quelle più solenni e ampie a quelle più quotidiane? Quali ‘passioni’, nel senso più nobile del termine, agitano la mia vita?
Sono domande che un prete che sia autentico educatore di attese autentiche non può non porre prima di tutto a se stesso. Dimmi chi aspetti e ti dirò chi sei. E se non aspetto Colui che deve venire, se la mia vita non è protesa all’incontro dello Sposo che non tarderà, vuol dire che il fuoco della mia identità di prete non solo è spento, ma è affogato in un liquido estraneo e incombustibile. Beato te, Eugenio, se, giorno dopo giorno, potrai rispecchiarti in questo autoritratto di san Paolo: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,12-14).
Anche sulla soglia della terza domenica di Avvento troviamo ancora Giovanni, il quale lungo il Giordano non solo battezzava, ma prima ancora “evangelizzava il popolo”, come testualmente afferma di lui l’evangelista Luca (3,18). Ecco il terzo verbo del prete – evangelizzare – in quanto ministro della bella notizia e primo operaio della nuova evangelizzazione nella sua comunità. Chi sono io veramente? si domanda a volte il pastore. Come il Battista, dovrebbe rispondere: Io sono una voce che grida. La proclamazione del Vangelo non è un mestiere che si aggiunge dall’esterno a una identità già altrimenti definita. Essa costituisce uno dei nuclei essenziali e determinanti di quella stessa identità, al punto che il prete dovrebbe poter sottoscrivere l’automaledizione di san Paolo: “Guai a me se non evangelizzo!” (1Cor 9, 16). E il presbitero non annuncerà la Parola di Dio come se la possedesse in proprio e la gestisse in esclusiva. L’evangelizzatore proclama ciò che lui per primo ha ricevuto, di cui resta sempre servo, da cui la sua vita stessa dipende, con fedeltà e amore. Portatore di una Parola viva, tu, carissimo Eugenio, sei una voce che grida e annuncia, corregge e consola, indica la strada ed incoraggia a percorrerla, richiama la meta e sollecita a raggiungerla.
E infine arriviamo alla quarta ed ultima tappa dell’Avvento, dove ci attende Maria, benedetta da Elisabetta insieme al benedetto frutto del suo grembo. E’ la Vergine Madre che a sua volta benedice il Signore e canta il Magnificat al suo Salvatore. Ecco un ultimo tratto della spiritualità liturgica dell’Avvento – benedire – ed ecco un altro segno identificativo del profilo del pastore ordinato: lodare, rendere grazie, fare eucaristia. Questo verbo – benedire – con l’alone di questi sinonimi iscrive la nostra identità sacerdotale nella forma di una benedizione che avvolge di impensata tenerezza tutta la nostra vita, “lungo il migrare dei giorni”. Così l’eucaristia non si ridurrà mai a rito separato dalla vita, né tantomeno a gesto magico o superstizioso, fatto per accaparrarsi la benedizione di un Dio altrimenti corrucciato o latitante o indifferente. L’eucaristia invece nel suo significato originario del termine, dice ‘opera di gratitudine’, e celebrata nella gratitudine diventa criterio e forma che plasma e trasforma tutta la vita del prete. Carissimo Eugenio, i quattro verbi dell’Avvento – vigilare, attendere, evangelizzare, benedire – sono altrettanti segni di riconoscimento della tua carta di identità di presbitero. Ma non dimenticare mai fino all’ultima sera della tua vita che tu, con l’ordinazione sacerdotale, entri nel nostro presbiterio, e quindi più precisamente diventi con-presbitero. Che questo semplicissimo prefisso ‘con’ non venga mai separato dal tuo essere presbitero.
E che Maria, la madre del sommo ed eterno Sacerdote, vegli sul tuo cammino e si dia continuamente da fare perché sull’orizzonte della tua vita presbiterale non si spenga mai il sole di una infrangibile certezza. Questa: che Gesù, il frutto benedetto del suo grembo verginale, non ti deluderà mai. Mai!
Rimini, 8 dicembre 2012
+ Francesco Lambiasi