Omelia del Vescovo di Rimini per Meeting 2018
Parole verticali, da cime dolomitiche, quelle appena risuonate nella nostra assemblea. Parole vertiginose, mai osate prima di Cristo, mai più udite dopo Cristo. Ma per non smarrirne neppure una sillaba, tentiamo di ridisegnare il preciso contesto storico in cui sono state pronunciate.
Il giorno precedente Gesù si era ritrovato davanti a una folla sterminata, dalle cinque alle settemila persone. Aveva guarito i loro malati. Li aveva incantati con la promessa del regno di Dio sulla terra. Li aveva strabiliati, sfamandoli a sazietà: di pane e di cielo. L’entusiasmo della gente era salito alle stelle. Se quell’uomo aveva il potere di guarirli dalle malattie e di liberarli dalla fame come nessuno aveva mai saputo fare prima di lui… Se, di contro, le promesse dei potenti della terra erano solo frottole e fake-news, allora quell’uomo era davvero il liberatore da sempre atteso. Era l’unico degno di diventare il loro re. Nel suo regno nessuno avrebbe mai più sofferto la fame. Nessuno avrebbe mai più patito guai, affanni e malanni.
Ancora una volta Gesù era stato frainteso. Non era venuto a portare il regno del benessere a buon mercato, il regno del pane guadagnato senza neppure una goccia di sudore, della sanità assicurata a prezzi stracciati. Questo era il regno che Satana gli aveva offerto fin dal principio, nei quaranta giorni di digiuno trascorsi in ritiro nel nudo, rovente deserto della Giudea. Era il delirio di povera gente, che molti avrebbero tentato di costruire a costo di passare su un mare di sangue. Un miraggio abbagliante che immancabilmente si sarebbe rovesciato in un incubo spaventoso, terrificante.
Nella notte passata in preghiera sul monte sopra Betsaida, cuore a cuore con il Padre suo, Gesù aveva deciso di parlare chiaro e tondo a quella gente. A costo di gelare ovazioni incontenibili. A costo di interdire esaltazioni mirabolanti. Nonostante – anzi proprio per – la compassione che provava per quella moltitudine, sfinita e sbandata, come pecore senza pastore. Così all’indomani, nella sinagoga di Cafarnao aveva comunicato messaggi duri e crudi, scatenando un putiferio indescrivibile. Dopo essere stato più volte interrotto, prima con il bisbiglio di brontolii e amari mugugni, poi con provocazioni via via più aspre e ostili, infine facendogli terra bruciata intorno, Gesù aveva concluso il suo discorso senza arretrare di un millimetro, anzi rincarando la dose. “Io sono il pane, quello vivente, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà per sempre. E il pane che io vi darò è il mio stesso corpo, dato e offerto perché il mondo abbia la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane unito a me e io a lui”.
Mangiare la carne: ma si può? Bere il sangue: ma il sangue è la vita. Non è assolutamente lecito berne – neppure una goccia – a nessuno e per nessun motivo al mondo. Un discorso da brivido: urticante, scandaloso. Ora possiamo metterci a mormorare e a discutere anche noi, ma alla fine non c’è che da ripetere smarriti la ‘ragionevole’ obiezione dei Giudei: “Come può costui darci la sua carne da mangiare? E’ impossibile!”.
Eppure è proprio in questo ‘impossibile’ che ci si svela chi è Dio e ci si rivela chi siamo noi. Il Dio di Gesù di Nazaret non è un Dio che pretende e gradisce olocausti, sacrifici e offerte. Non siamo noi a doverci sacrificare per lui. E’ lui che si sacrifica per noi e offre se stesso per comunicarci la sua stessa vita. E’ proprio per rivelare questo Dio che Gesù è venuto e continuamente viene nell’instancabile passione d’amore per l’uomo che è l’eucaristia. E dona se stesso in pegno: prendetemi, mangiatemi, bevetemi. Dio non vuole strapparci il pane di bocca. Anzi è lui che si fa pane per la nostra fame di cielo. E si fa sangue per la nostra bruciante sete di verità, di libertà, di straripante felicità. E ci fa la ‘trasfusione di sangue’ con il sangue del Figlio, perché la sua vita fiorisca nella nostra povera vita. Il nostro Dio è davvero ‘nostro’: un Dio tutto per noi, che non finirà mai di amarci, di servirci, di volerci felici.
Ma il vangelo di oggi si fa anche vera ‘buona notizia’ per noi. Ci dice chi siamo noi, quale infinito destino ci attende, quale luce già da ora riveste e colora la nostra povera vita. Noi siamo insufficienti a noi stessi. Eppure siamo dentro il mistero di Dio. E non solo perché creature sue, perché tali sono anche gatti, cavalli e cagnolini. Ma perché noi siamo voluti e chiamati a entrare nella sua vita. A farne parte: come amici intimi, come parenti stretti. Di più, come figli, teneramente e tenacemente amati. Adesso, già adesso, nella contraddittoria condizione del nostro continuo vagabondare, nei laceranti strappi delle relazioni umane, nella nostra penosa incapacità di un gratuito spenderci e donarci, nella paziente passione per il bene comune, nella gioiosa testimonianza di servizio e di accoglienza per ogni persona di qualsiasi colore, di qualsiasi bandiera, lasciamoci inebriare dal fremito di quelle parole travolgenti: “Chi mangia di me, vivrà per me”.
Vivere per Cristo, con Cristo, in Cristo, vuol dire semplicemente amare. Vuol dire vivere una vita piena, traboccante. Una vita ‘a 3 b’: bella, buona, beata. Vivere di lui, come lui, vuol dire semplicemente vivere.
Vivere una vita autenticamente umana.
Perché veramente sovrumana.
Perché pienamente divina.
Rimini-Fiera, 19 agosto 2018
+ Francesco Lambiasi