Omelia per l’apertura della Missione diocesana straordinaria
“Le cose di ogni giorno raccontano segreti / a chi le sa guardare ed ascoltare”. Per fare un fuoco ci vuole una fiamma; e per fare una fiamma ci vuole una scintilla. Per fare un fiore ci vuole una gemma; e per fare una gemma ci vuole un seme. Ma cosa c’è voluto per far nascere la comunità cristiana dell’antica Ariminum? C’è voluto niente meno che un santo: Gaudenzo, santo perché missionario pastore martire, e martire pastore missionario perché santo. Di lui sappiamo poco, troppo poco. Eppure questo “poco” è più che sufficiente per decodificare il codice segreto della sua fecondità apostolica. San Gaudenzo non avrebbe potuto generare la nostra Chiesa se, appunto, non fosse stato un santo: un cristiano al 100%. E non sarebbe stato un cristiano santo se in lui non avesse palpitato un cuore bruciato dall’amore.
1. Quando Gaudenzo arrivò a Rimini, molto probabilmente dovette trovare un gruppo di cristiani che vi si erano stabiliti, provenienti da altre parti, o di nativi “Ariminensi” che si erano convertiti al cristianesimo, ma ancora non erano stati battezzati. Si veniva dall’editto di Milano. Guidata dal giovane pastore, la comunità cristiana ben presto si sviluppò, e ben presto si ammalò. Due furono i virus che ne aggredirono la fedeltà dottrinale e la coerenza morale.
Il primo fu il virus della mondanità. Spenta con Costantino la violenta vampata dell’ultima persecuzione, il farsi battezzare diventava la condizione appetibile per qualunque rampante volesse dare la scalata a un vertiginoso cursus honorum nell’impero. Molti si facevano cristiani non più per scelta libera e gratuita e per solida convinzione, ma per convenzione e per meschini interessi di carriera e di cassetta. Non li impauriva più la minaccia del martirio, ma li allettava il miraggio del successo. Il vescovo Ilario di Poitiers, di qualche decennio più giovane del nostro san Gaudenzo, riassumeva in queste battute il rapido mutamento avvenuto, e lanciava il grido di allarme: “C’è all’orizzonte un persecutore insidioso, un nemico che ci lusinga. Non ci flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre. Non ci confisca i beni, ma ci fa ricchi. Non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo riducendoci alla schiavitù. Non ci stringe i fianchi con catene, ma vuole il possesso del nostro cuore. Non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, il potere, il successo, e con i primi posti nella società”.
La vasta fioritura della nascente comunità cristiana ariminense corse un altro rischio mortale, ma, mentre il primo, quello della mondanità, l’aggrediva dall’esterno, questo secondo germinava dall’interno stesso della comunità: era il virus dell’eresia ariana. Secondo Ario, Gesù era una creatura: per quanto buono e santo, il Nazareno era da considerarsi certamente l’uomo più vicino a Dio, ma non era vero Figlio di Dio. Tradotto nel linguaggio di oggi, il messaggio dell’arianesimo si potrebbe formulare così: Cristo sarebbe come la “testa di serie” di tutte le creature umane, il primo dei profeti e dei santi, ma non il “fuori-serie”, Dio da Dio, luce da luce, generato non creato. Gli ariani separavano ciò che, nella persona di Gesù, Dio stesso aveva unito: la natura umana e la natura divina. Affermavano che “Gesù è uomo, e in ciò si dimostravano cattolici; ma negavano che fosse anche Dio, e in ciò erano appunto eretici” (Pascal). Anche se con formule ancora non del tutto precise, per san Gaudenzo, invece, la verità cattolica era quella che, un secolo dopo, il concilio di Calcedonia avrebbe definito con la formula: “una persona, due nature”. Infatti Gesù è veramente e perfettamente Dio e, insieme, veramente e perfettamente uomo. In altre parole, Gesù Cristo è “tutto dalla parte di Dio e tutto dalla parte dell’uomo” (s. Leone Magno). Se così non fosse, non ci potrebbe salvare: difatti, se non fosse vero Dio, non potrebbe essere il nostro salvatore unico e universale; se non fosse vero uomo, non potrebbe essere il mediatore tra Dio e noi (cf. 1Tm 2,5). Sono parole, queste, dure e gelide come pietre, ma di quelle pietre da cui si sprigionano le scintille, poi dalle scintille si accende la fiamma, e dalla fiamma si appicca il fuoco.
2. Così siamo tornati all’inizio, alla metafora del fuoco. Ora domandiamoci: qual era il fuoco che bruciava nel cuore di san Gaudenzo? Era l’amore per Gesù. Pensate, sorelle e fratelli miei, che la prima scomunica scagliata nel NT si legge in san Paolo: “Se qualcuno non ama Gesù, sia anàtema” (1Cor 16,22). Terribile! Nel corso dei secoli sono state pronunciate, a proposito di Cristo, tante scomuniche: contro chi negava la sua umanità, contro chi respingeva la sua divinità, contro chi separava l’umanità e la divinità, contro chi le confondeva… Ma forse non si è posta sufficiente attenzione al fatto che il primo anatèma della cristologia, pronunciato da un apostolo in persona, è contro coloro che non amano Gesù Cristo. Ma come l’apostolo Paolo, il vescovo Gaudenzo poteva dire del suo Gesù: “Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). “L’amore del Cristo – scriveva ancora san Paolo – ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti” (2Cor 5,14). Come a dire: l’amore di Cristo per Paolo e di Paolo per Cristo segnala il segreto di tutta la vita intima dell’apostolo e dell’intero volume del suo apostolato. E’ da questo amore che Paolo si sente “posseduto”: afferrato, avvolto, abbracciato, stretto e come “costretto”.
In un discorso rivolto ai vescovi nella sua recente visita pastorale negli U.S.A. (23.9.2015), papa Francesco ha affermato: “Ciò che è più decisivo per un pastore è consegnarsi alla certezza che le braci della presenza (del Risorto), accese al fuoco della passione, ci precedono e non si spengono mai. Venendo meno tale certezza, si rischia di diventare cultori di cenere e non custodi e dispensatori della vera luce e di quel calore che è capace di riscaldare il cuore (cfr Lc 24, 32)”. Ma tale affermazione è estensibile, pari pari, a tutti gli evangelizzatori: vescovi o preti, persone consacrate o laiche.
Di qui la conseguenza inesorabile: un sacco di cenere non accende nessuna fiamma, ma allo Spirito del Risorto basta una sola fiamma per accendere il fuoco del cenacolo. Mille candele spente non ne accendono nessuna. Due, tre candele accese ne accendono cento e perfino mille. Ecco l’essenziale della nostra missione straordinaria: è ravvivare il fuoco dell’amore di Gesù nel nostro cuore e nelle nostre comunità. E’ rituffarci nel nostro battesimo. E’ lì che Gesù ha effettuato in noi il trapianto del suo cuore e la trasfusione del suo sangue. Se lasceremo ardere il fuoco dell’amore di Gesù nelle nostre vene, supereremo il test di attendibilità della fede cristiana: l’amore verso i poveri e tra di noi. E gli altri ci riconosceranno come “cristiani-cristiani” (!) e diranno: “Guarda come si amano!”.
No, noi non siamo i custodi di gelide urne cinerarie che conservano resti di paure, avanzi di angosce, scorie di tristezze. Noi siamo poveri discepoli, feriti dallo sguardo d’amore del Maestro e accesi dal fuoco del suo vangelo. Noi non siamo chiamati per una mission, ma per la missione: una mission si organizza; la missione si genera. Noi non siamo facchini ingaggiati per riempire granai con sacchi di noia. Siamo missionari: inviati speciali, mandati a piantare semi di letizia e a mietere covoni colmi di gioia. E sarà il vangelo della gioia a farci ardere senza bruciarci. Questo è il succo concentrato del Giubileo, formulato con l’appello insistente di Francesco: “Usciamo per offrire a tutti la gioia del vangelo!”.
Rimini, Basilica Cattedrale, San Gaudenzo 2015
+ Francesco Lambiasi