Le parole della Misericordia di Gesù in croce
Omelia del Vescovo nell’azione liturgica del Venerdì santo
Le sette parole pronunciate da Gesù in croce hanno costituito da sempre una sorta di “vangelo nel vangelo”. Ognuna di esse è come una feritoia che inquadra un frammento del dramma dell’agnello di Dio “condotto al macello”, sotto la massa schiacciante dei peccati del mondo. La croce di Cristo è un mistero fitto di orrore, di dolore e di sconfinato amore che supera ogni parola, capace di illuminare tutte le agonie degli uomini, tutte le notti dei popoli. Tre di quelle sante parole sono rivolte a Dio Padre e si collocano rispettivamente all’inizio, al centro e alla fine di questo sacro settenario. Su ognuna di esse vogliamo ora sostare con fede sincera e tenera devozione.
1. La prima parola: “Padre, perdona!”
Gesù è in croce: è il benefattore di tutti e muore come un malfattore. Religiosamente è un maledetto, politicamente un fallito, moralmente un criminale. Tra poco più di un paio d’ore lo attende una morte crudele e spaventosa. L’appeso al patibolo può sollevarsi appena sulle braccia a prezzo di dolori atroci, indescrivibili. Eppure riesce ancora a parlare, e la prima parola che gli fluisce dal cuore è perdono, dono al superlativo, offerta dell’amore più forte e più dolce, frutto della misericordia più gratuita e generosa. E’ una accorata preghiera al Padre per implorare misericordia per i suoi uccisori, per i mandanti e i carnefici: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno“.
Anche Geremia, il giovane profeta di Anatot, era stato accusato ingiustamente. Avrebbe potuto ricorrere a un tribunale umano per ottenere giustizia. No, Geremia rinuncia a difendersi e fa appello direttamente a Dio. Ma a Dio chiede una vendetta implacabile per i suoi avversari: se è un Dio giusto, faccia vedere da che parte sta. E se sta dalla parte del profeta, allora incenerisca i suoi nemici, le loro mogli diventino vedove e i loro figli orfani. Gesù invece si rivolge al Padre-Abbà, ma non invoca vendetta: chiede il perdono, anzi, oltre che perdonare, arriva addirittura a scusare i suoi crocifissori. Da notare il verbo della preghiera, nel vangelo lucano: diceva. Colui che nel processo si era chiuso in un dolente silenzio – e “taceva”, scrive l’evangelista Matteo usando l’imperfetto, per sottolineare la profondità e la durata – ora si rivolge direttamente al Padre suo, e lo fa più volte, come sottolinea Luca, usando lui pure l’imperfetto, appunto: “diceva“. E’ un verbo che esprime una preghiera ripetuta e insistente. E’ lecito fare mente locale: ad ogni colpo di martello per piantare i chiodi che gli straziavano le carni, ad ogni scherno atroce che gli artigliava il cuore il cuore, ad ogni sia pur minimo spasimo che gli causava uno strazio indicibile, Gesù deve aver ripetuto ogni volta: “Padre, perdona!”. Ma “gli sembrò poco perdonare, volle anche scusare” (Aelredo di Rievaulx). Scrive san Paolo: “Se i dominatori di questo mondo avessero conosciuto la sapienza di Dio, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1Cor 2,8). Cade così l’immagine deviata di un dio tremendo, che sta all’origine della paura della morte, causa dell’egoismo e della brama di avere, di apparire, di potere. Al suo posto brilla l’immagine autentica del Padre. Più che misericordioso, è la misericordia stessa: incondizionata, intatta, infinita. Invocare il perdono per quanti “non sanno quello che fanno”, non può non farci pensare in questi giorni all’ennesima terribile esplosione di violenza degli attentati terroristici di Bruxelles. Ricordiamo: il perdono cristiano esclude sempre la vendetta, ma non va mai contro la giustizia.
2. La quarta parola: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”
L’agonia del Crocifisso continua lenta, inesorabile. Ora perfino il sole è stato inghiottito dal buio più nero. Siamo alla desolazione più inconsolabile: il cuore di Gesù è invaso dal veleno mortale di tutta la massa di tutti i peccati di tutta la storia di tutta l’umanità. E’ paradossale che faccia esperienza dell’assenza di Dio colui che ne ha proclamato l’assoluta vicinanza. L’urlo di Gesù è la citazione del salmo 22 che esprime lo sconforto del giusto perseguitato e insieme la sua incrollabile fiducia in Dio. Alla luce del salmo, l’assenza di Dio che Gesù prova in cuore, va intesa come consegna nelle mani dei nemici. Ma l’abisso dell’abbandono è ancora più profondo. Gesù si fa solidale con gli uomini peccatori, fino a sentire come propria la loro separazione da Dio: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno” (Gal 3,13); “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,24). Gesù sperimenta una distanza infinita tra il Padre suo, totalmente immerso nella santità più immacolata, e il proprio cuore totalmente sommerso dall’impurità più depravata. Sebbene conosca il sentirsi affettivamente abbandonato da Dio, il Figlio crocifisso si consegna e muore, effettivamente abbandonato a Dio.
3. L’ultima parola: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”
Gesù muore pregando, e anche per la sua ultima preghiera, si serve delle parole del Salmo 31,6 e vi appone la sua firma con l’invocazione iniziale, la dolcissima parola della sua vita: “Padre-Abbà”. In essa si racchiude tutta la sua più vera identità di Figlio amato e si specchia il volto infinitamente misericordioso del Padre benedetto: non tanto l’Essere perfettissimo, quanto piuttosto l’Amore forte e tenerissimo. In una toccante meditazione su Gesù abbandonato, Chiara Lubich scriveva:
Quando il dolore raggiunge quel limite in cui tutta la vita è sospesa… allora, se un filo di voce rimane si chiama la mamma, perché la mamma è l’amore. “Ma Tu, come Figlio di Dio, l’amore l’avevi nel Padre e il Padre hai chiamato. E, come uomo, l’amore l’avevi anche nella Mamma tua celeste: nell’impossibilità di invocare ambedue, hai chiamato il Padre con la voce della Mamma. Quanto sei bello in quel dolore infinito, Gesù Abbandonato!”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 25 marzo 2016
+ Francesco Lambiasi