Conferenza tenuta presso il Pontificio Seminario Regionale di Bologna in occasione del XC di fondazione
Un santo, un prete santo, si riconosce. Si riconosce da come parla e da come vive, da come affronta le prove della vita e da come muore. Che Giovanni Maria Battista Vianney sia santo d.o.c., per dei credenti cattolici è fuor di dubbio. Ma la Chiesa non inventa la santità di un cristiano: la riscontra e la “definisce”, la propone come attraente e imitabile. Il Curato d’Ars è stato riconosciuto santo già in vita. Noi, gente di questa nostra epoca post-moderna ripiegata e confusa, lo avremmo riconosciuto santo? Videtur quod non, verrebbe da dire con s. Tommaso. Oggi siamo tutti un po’ nipotini dei “maestri del sospetto” e un po’ diffidenti “avvocati del diavolo”. Chissà quante volte siamo stati percossi dal dubbio che, nel “mitizzare” la figura di questo minuto, emaciato pretino di campagna, si sia incorsi in qualche forzatura preconcetta. L’immagine di un parroco di questa taglia – con il volto incavato, la veste trasandata, con il grande cappello sformato e le grosse scarpe da contadino; un curato di campagna pio e zelante ma culturalmente sprovveduto, al centro di un movimento inaudito di devoti; un prete “santo-subito” molto prima della morte, perfettamente aderente agli schemi agiografici che tanto piacevano alla pietà ottocentesca – insomma questo cliché dell’immaginario collettivo non avrebbe forse bisogno di uno scrupoloso, inesorabile lavoro di “demitizzazione”, in modo da distinguere con puntigliosa precisione dove finisce il Curato della fede e dove comincia il Vianney della storia?
Si impone una “raschiatura” della patina oleografica depositata sul suo ritratto e un deciso restyling che prenda di petto le obiezioni più accanite contro il personaggio[1]: la sua ascesi forsennata al limite dello sfinimento, l’austerità implacabile delle penitenze maceranti non ne fanno un santino “dal collo torto”, un penitente accanito contro se stesso, in uno sforzo di autopunizione che ha del patologico? Da dubbio nasce dubbio: il suo rigorismo di remota ascendenza giansenista non gli è stato cucito addosso per stupire i suoi devoti, amanti di emozioni forti? Il sospetto si insinua anche in dettagli tutt’altro che periferici, anzi piuttosto drammatici, della sua vita: è vero che il giovane Vianney disertò perché non voleva militare nell’esercito di un imperatore scomunicato?
Qui non c’è tempo per verificare la fondatezza o meno di queste ed altre obiezioni. Un interrogativo però merita di essere ripreso. Altrimenti, se rimosso, getterebbe nell’angoscia le nostre coscienze del terzo Millennio, così allergiche ai sensi di colpa e così ipersensibili al benessere psico-fisico e al culto del corpo: il Curato d’Ars era, nella mentalità e nella pratica, un rigorista?
1. Fu un rigorista duro e intransigente?
Bisogna cominciare dai suoi maestri, che non furono i dotti insegnanti del seminario. Quei professoroni accigliati parlavano latino, ma per il ventiseienne seminarista di Verrières questo rappresentava un intoppo insuperabile. Se il francese era per lui una lingua straniera, il latino era una lingua preistorica indecifrabile. Il giovanotto, che non era affatto stupido, si rese conto di non farcela senza un miracolo. Decise allora di andare in pellegrinaggio a La Louvesc per chiederlo a san Francesco Régis. Il santo glielo concesse, però con parsimonia: quel tanto che bastava per tirare avanti. Ma lo studio della filosofia in latino fu una pena. Il peggio fu che Giovanni Maria incominciò a farsene un complesso: dubitava di non aver capito anche quando aveva capito. E una volta trasferitosi al seminario maggiore di Lione per la teologia, l’esame fu un disastro: si vide rifilare la nota più bassa, debilissimus, con in più l’aggravante amara: “respinto presso il suo parroco”. Per fortuna che rimediò al grave incidente di percorso l’abbé Balley a Ecully, che lo riprese sotto la sua ala protettrice e lo preparò al sacerdozio.
Insegnante esigente e austero, il reverendo Balley faceva parte della congregazione francese dei canonici regolari di s. Agostino, detti Genevéfains (“genoveffiani”), le cui frange erano state lambite dalle gelide correnti gianseniste. Ma il padre Balley e il suo giovane discepolo in realtà erano più vicini ad Agostino che all’agostinismo. Sta di fatto che, consapevole delle sue scarse doti oratorie, il giovane curato trascriveva scrupolosamente ampi brani del sermonario di quel tempo. Specialmente i testi che riteneva più idonei a colpire l’emotività popolare, li imparava faticosamente a memoria e li urlava dal pulpito con una voce stridula che rompeva i timpani. Una volta qualcuno glielo disse: “Signor curato, perché parlate tanto forte quando predicate, e vi si intende a malapena quando pregate? – Perché quando predico – rispose – parlo a dei sordi o a gente che dorme, ma quando prego, parlo al buon Dio che ci sente benissimo”[2]. Ma se il tono delle prediche – che normalmente duravano dai 45 ai 60 minuti – era di timbro “savonaroliano”, il contenuto era roba da far accapponare la pelle.
Dovunque vedeva seduzione, tentazione, peccato. E tuonava infuriato, ricorrendo di continuo al ritornello raccapricciante dell’inferno. Gli uditori, esterrefatti, si lagnavano: “Ci sarebbe da darsi alla disperazione”. E il Curato, pronto: “Amico mio, vorrei potervi condurre a due dita dalla disperazione, affinché colpito dal vostro stato spaventoso, adottiate i mezzi che il buon Dio ancor oggi vi presenta per uscirne”[3]. In questo atteggiamento intransigente giocava la sua indole ansiosa, incline allo scrupolo, attaccata a un malcompreso “tuziorismo” morale. Lui, così ignorante, cieco, non rischiava di trascinare altri ciechi nell’abisso? Sentiva in maniera esagerata la sua responsabilità di pastore: “E’ una cosa spaventosa passare da una canonica al tribunale di Dio”, aveva deplorato una volta[4]. Questo sentimento d’incapacità, di indegnità rappresenterà la tragedia della sua vita, lo condurrà sull’orlo della disperazione, lo spingerà a fuggire per ben tre volte da Ars, alla ricerca di un luogo solitario “dove piangere la sua povera vita”.
Sulla bilancia bisogna però mettere altri fatti, pure accertati, che sembrano non combaciare del tutto con lo stereotipo, che ci è stato tramandato, del santo Curato. Dal 1826 Ars divenne la meta di una fiumana di pellegrini e di penitenti, che andò via via ingrossando fino a raggiungere la cifra dai 300 ai 400 pellegrini al giorno, complessivamente da 80mila a 100mila negli ultimi anni. E’ mai possibile che tutta quella gente si recasse ad Ars per confessarsi da un rigorista spietato, che agitava lo spauracchio dell’inferno a ogni occasione, che terrorizzava le loro coscienze con previsioni terribili e catastrofiche? A causa dell’assalto irrefrenabile al suo confessionale, il santo dovrà dedicare sempre più ore alle confessioni, fino alle quattordici ore al giorno, riducendo al minimo i tempi del sonno e del riposo, al punto tale che un giorno esclamerà: “Oh, i peccatori, finiranno per uccidere il povero peccatore!”.
Ad ogni modo l’evoluzione dal rigorismo giovanile alla dolcezza commossa e commovente del confessore maturo, nel Vianney, fu graduale, ma nettissima. Il contatto sempre più frequente con le anime, con la loro ricerca di perdono e di consolazione andava del resto smussando certe punte della sua passata intransigenza morale. Anche il suo regime di vita si modificò progressivamente. Negli ultimi anni mangiava di più e non si flagellava quasi affatto. Giunto all’età dei primi capelli bianchi, faceva l’esperienza della tenerezza. Rimaneva l’orrore del peccato, ma cambiava il metro di valutazione: non più l’inflessibile giustizia divina, ma la misericordia di un Dio unicamente e totalmente Padre. L’amore prevale ormai sul timore. Ecco alcuni loghia del “Quinto Evangelio” secondo il santo Curato:
Nel sacramento della penitenza Dio sembra dimenticare la sua giustizia, per manifestare solo la sua misericordia.
Non è il peccatore che torna a Dio per chiedergli perdono, ma è Dio stesso che corre dietro al peccatore per farlo tornare a lui.
Il buon Dio sa tutto. Sa fin da prima che, dopo esservi confessati, peccherete di nuovo. E tuttavia vi perdona. Quale amore, quello del nostro Dio, che arriva fino a dimenticare volontariamente l’avvenire per perdonarci!
Ci sono alcuni che attribuiscono al Padre eterno un cuore duro. Oh, come si sbagliano! L’eterno Padre, per disarmare la sua giustizia, ha dato a suo Figlio un cuore eccessivamente buono: non si può dare quello che non si ha. Dio ci ama più del migliore dei padri, più della madre più tenera..
Perfino l’inferno assume un nuovo aspetto alla luce dell’amore:
L’inferno ha la sua origine nella bontà di Dio. I dannati diranno: “Oh, se Dio almeno non ci avesse amato tanto, noi soffriremmo di meno! L’inferno sarebbe sopportabile. (…) Ma essere stati tanto amati, che dolore![5]
Col passare degli anni non solo il messaggio, anche il linguaggio si faceva meno aspro e rovente, più dolce e consolante. Sapeva toccare il profondo del cuore. Ma rimaneva sempre vero che un conto era sentire con le proprie orecchie la parola del Curato, un conto era rileggere quanto alcuni discepoli avevano provato quasi a stenografare, pur di non perdersi una sillaba. Chi come il Monnin aveva cercato di scrivere ciò che aveva appena sentito dalla predica, riconosceva che la trascrizione, per quanto fedele, aveva perso la sua incandescenza: “era come lava raffreddata”. E Lacordaire, che nel maggio 1845 si trattenne due giorni ad Ars, impressionato dalla profondità spirituale dell’uomo che “inteneriva con la semplicità e incantava con la dottrina”, fu udito da alcuni testimoni affermare: “Vorrei poter predicare come lui”[6].
2. La straordinaria giornata ordinaria di un santo
I santi, “gli amici di Dio – affermava il Curato – si riconoscono dappertutto”. Dappertutto e sempre, potremmo aggiungere noi, anche nel giorno per giorno. Un santo, un santo prete, si riconosce da come vive il quotidiano. Ecco la ricostruzione di una giornata-tipo del parroco di Ars, verso il 1850. L’orario esposto dettagliatamente qui sotto è quello su cui tutti sono generalmente d’accordo.
Ore 1: Monsieur Vianney suona personalmente l’Angelus per annunciare che la chiesa è aperta e che comincia a confessare. Si mette nel confessionale delle donne.
Ore 6,30: Lascia il confessionale e si prepara, in ginocchio, alla Messa.
Ore 7: Celebra la Messa. In sacrestia benedice le medaglie, firma immagini e incontra le poche persone che si sono potute avvicinare.
Ore 8: Va rapidamente alla “Provvidenza” a prendere un po’ di latte, ritorna subito e si rimette a confessare.
Ore 10: Esce un istante per recitare una parte del suo ufficio, in ginocchio sul tavolato della sacrestia, poi si rimette a confessare fino alle undici.
Ore 11: Sale sul piccolo pulpito del catechismo e parla per circa un’ora. Chiude con la recita dell’Angelus.
Ore 12: Va in canonica fendendo a fatica la folla che si ammassa in quei pochi metri. Hanno portato malati e bambini. Egli si ferma, incoraggia, sorride, dice alcune parole, poi entra a consumare il suo leggero pasto in una scodella: minestra con verdura.
Ore 12,30: Visita i suoi malati (non trascura mai di farlo). A volte, tra mezzogiorno e l’una sono riuscito a pranzare, a spazzare la mia camera, farmi la barba, dormire e visitare i miei malati…
Ore 13: Mentre torna in chiesa (spesso) fa una sosta alla “Provvidenza” per vedere «i suoi figlioli» e fa una visitina (dal 1853 in poi) ai vicini missionari e ai suoi confratelli di passaggio. Si rimette al confessionale delle donne, dopo aver recitato il resto del suo ufficio.
Ore 16: Dopo un’altra breve sosta in canonica ritorna al confessionale degli uomini.
Ore 20: Sale sul pulpito per recitare il rosario e la preghiera della sera. Poi ritorna in canonica per intrattenersi brevemente con i suoi collaboratori ed eventualmente qualche altra persona che intende incontrare a tu per tu.
Ore 21: Si chiude in camera sua dove legge e prega ancora per un’ora intera prima di addormentarsi.
In sintesi, possiamo dire che il Curato pregava dalle cinque alle otto ore al giorno; confessava circa dodici-quattordici ore al giorno; dormiva solo quattro o cinque ore per notte; negli ultimi anni solo due ore. In sostanza negli ultimi venti anni, lavorava praticamente venti ore al giorno. La sua resistenza era davvero impressionante. Minimizzava spesso la durezza di ciò che si imponeva, rifacendosi alle sue origini contadine e alla educazione spartana ricevuta: “Ho la pelle dura… in campagna la gente è resistente; dopo aver mangiato qualsiasi cosa e dormito due ore, posso ricominciare”. Un testimone che lo aveva osservato da vicino, riguardo alle sue dure fatiche diurne e notturne, riporta questa confidenza:
Mio caro amico, non potrei sopportarle, lavorando come faccio e nutrendomi così poco, senza una grazia particolare. Questo non sarebbe niente, ma sapeste quanto soffro! Non si può immaginare. Mi prendono spessissimo coliche tremende e ora quasi tutti i giorni, e sono così dolorose che non riesco a sopportarle. Mi si gonfia il corpo e cadrei svenuto se non uscissi subito a prendere qualche rimedio. D’inverno soffriva molto il freddo. Un anno o due fa, mi disse un giorno, mi gelarono i piedi. La pelle dei calcagni si staccò e rimase attaccata alle calze quando le sfilai. Quando esco dal confessionale bisogna che mi cerchi le gambe con le mani per sentire se ce l’ho ancora. Quando esco di chiesa devo appoggiarmi alla parete e alle sedie. A fatica mi tengo diritto. A volte non so dove sono: mi prendono forti dolori alla testa che mi fanno soffrire terribilmente[7].
3. Le prove dell’età matura
Un santo, un prete santo, si riconosce da come affronta le prove della vita e quelle del cammino verso la meta, sfiancante e appagante, della santità. Per il santo Curato le prove furono molte e molto aspre: dalle opposizioni e calunnie alle furibonde persecuzioni diaboliche del grappin; dalle diffidenze e gelosie dei confratelli al disagio nella difficile collaborazione con un giovane cappellano invadente e imbarazzante, il giovane don Raymond; dalla salute minata da un lavoro sfibrante e da incredibili penitenze alle apprensioni per la “Provvidenza” di Ars. Ma furono soprattutto le prove morali e spirituali le inseparabili compagne della sua vita. L’angoscia ossessionante, che gli derivava dal senso di indegnità e di incapacità ad esercitare l’ufficio della cura d’anime, gli procurò fino alla morte una dolorosa lacerazione interiore: fu questa la forma assunta dalla sua croce.
Qui ci soffermiamo su una difficoltà che in un fedele discepolo del Vangelo come lui, non ci si aspetterebbe: la difficoltà nella preghiera.
“Che felicità amare Dio! — ripete spesso Giovanni Maria —. Oh, quanto è bello e grande dare a Dio la propria giovinezza! Quale fonte di gioia e di letizia!”. E nella vecchiaia, oberato dalla continua affluenza di pellegrini che lo assalgono, dice ai suoi amici: «Quanto ero felice nei primi tempi del mio soggiorno ad Ars! Non avevo nessuno, ero solo…».
E’ anche certo, però, che negli anni giovanili egli è tormentato da molte angosce e pene intime. Passa in preghiera parecchie ore ogni giorno. Indubbiamente, ne prova gioia: «La preghiera è una tenera amicizia, una sorprendente familiarità: è il dolce colloquio di un figlio col padre». Ne sente però anche la monotonia e l’aridità. «Il nostro povero cuore è arido come un’esca, come un pezzo di sughero, duro come un sasso, freddo come marmo». E, insieme a questo, risorge continuamente in lui il sentimento della propria indegnità e della propria incapacità di essere parroco. Non sarà forse stata presunzione, da parte sua, accettare un tale incarico? E tra i suoi parrocchiani non ve ne sarà qualcuno che rischia di dannarsi a causa della sua incompetenza? Questi pensieri lo torturano. Caterina Lassagne parlerà più tardi, evidentemente in seguito a confidenze ricevute da lui, delle «pene così terribili che dopo il primo o secondo anno di vita ad Ars, lo avevano continuamente tormentato». Egli sogna la vita monastica, d’altronde molto idealizzata; una trappa dove troverebbe solitudine, preghiera e tempo per lavorare alla salvezza della propria anima. Perché ha paura di perdersi: questo grande adoratore di Dio teme l’inferno… È l’epoca in cui scrive i suoi più terribili sermoni, in cui passa le ore a leggere gli austeri autori del secolo XVIII dei quali è composta, in massima parte, la biblioteca del rev. Balley. E naturale che i suoi parrocchiani siano rimasti impressionati da quella severa dottrina: ma è evidente che egli stesso ne è colpito. Quando fa l’esame di coscienza, non vede che la propria indegnità di peccatore. Molto tempo dopo, a una delle sue penitenti dirà: «Ho chiesto una volta a Dio di vedere la mia miseria e l’ho ottenuto. Se Dio non mi avesse sostenuto, mi sarei disperato». E supplica con tutto il cuore: «Mio Dio, fammi la grazia di non andare all’inferno!». Quasi ingenuamente egli rivela il fondo del suo cuore: «Se si dovesse essere dannati, sarebbe però una consolazione poter dire: almeno ho amato il Buon Dio su questa terra». E a proposito della celebrazione dell’eucaristia: «Mio Dio, se devo avere la sventura di essere separato da te per tutta l’eternità, prolunga almeno gli istanti in cui ti tengo tra le mani!». Dirà pure che quando tutto andava male, «correva a prostrarsi innanzi al tabernacolo come un cagnolino corre appresso al suo padrone». Sappiamo che tale prova degli anni giovanili si è protratta, se pure saltuariamente, per molto tempo: perché dopo il 1853, risponde allo stesso modo al suo amico, il rev. Toccanier, che gli dice ridendo: «Avete avuto una grossa distrazione, questa mattina, durante la Santa Messa». «Avevo un’idea strana! Stavo dicendo a Nostro Signore: Se dovessi in seguito non essere più con te, adesso che ti tengo non ti lascerò più».
Fratel Anastasio, uno dei religiosi della Sacra Famiglia, quando viene nominato direttore della scuola dei ragazzi nel 1849, diventa uno dei suoi intimi. La sua testimonianza è un buon riassunto di quel che sappiamo della lunga prova interiore di Giovanni Maria Vianney. Sembra che essa abbia raggiunto l’apice verso il 1823, quando ha inizio la venuta dei penitenti e dei pellegrini: «Ho saputo dallo stesso signor Curato, che aveva avuto sofferenze intime. Era spaventato della propria ignoranza, tremava pensando al peso pastorale e alla responsabilità di un ministero straordinario come il suo. Aveva pregato Dio di rivelargli il proprio intimo. Ne fu così spaventato che pregò l’Onnipotente di illuminare con meno chiarezza la sua anima, per timore di essere spinto a pensieri di disperazione». Al termine della sua vita, a qualcuno che gli chiede un giorno, familiarmente, se non ha pensieri contrari all’umiltà: «No — risponde vivamente —, non è questa la mia tentazione. Non faccio alcuna fatica a persuadermi che non sono io a fare questo. È il buon Dio… La mia tentazione è la disperazione».
Come ci si salva da questa tentazione? Amando Dio: «Dio ci ama più del migliore dei padri, più della più tenera delle madri. Dobbiamo solo sottometterci e abbandonarci alla sua volontà». E vero: parla spesso dell’inferno; ma in realtà, parla più spesso dell’amore: «E meglio l’amore che il timore. Vi sono di quelli che amano il Buon Dio, ma con grande timore. Non si fa così. Dio è buono. Conosce le nostre miserie: dobbiamo amarlo, dobbiamo voler fare di tutto per piacergli». Dalle sue stesse prove, Giovanni Maria trae una lezione di ottimismo. «Quando non si hanno consolazioni, si ama Dio per lui stesso; quando invece se ne hanno, c’è il rischio di servirlo egoisticamente». Forse in uno dei suoi momenti di intima desolazione, che il suo abituale sorriso non lascia neppure sospettare a chi lo incontra, egli pronuncia questa preghiera, piena di commozione ma anche di pace:
Mio Dio, se non posso dirti continuamente con la voce che ti amo, voglio che il mio cuore te lo ripeta a ogni palpito. Mio Dio, fammi la grazia di soffrire amandoti e amarti soffrendo. Ti amo, mio divino Salvatore, perché sei stato crocifisso per me. Ti amo, mio Dio, perché mi tieni quaggiù crocifisso per te… Concedimi la grazia di morire amandoti e sentendo che ti amo. Sentendo che ti amo! Queste ultime parole possono sorprenderci: Giovanni Maria chiede forse qualche grazia eccezionale? No, ma lui che soffre tanto della sua intima desolazione, si rivolge a Dio come un bambino al padre, con piena fiducia, perché ne è ben persuaso: Il buon Dio è la gioia di chi lo ama.
4. Il segreto di una vita santa: l’amore
Un santo, un prete santo, si riconosce da come ama e da come muore. Al santo Curato si potrebbe applicare il titolo di uno scritto di don Mazzolari: “Anche i preti sanno morire”. Ma prima ancora gli si potrebbe applicare il versetto di Giovanni: “Avendo amato i suoi, li amò fino alla fine”. Fino alla fine: fino al massimo dell’intensità, fino all’estremo dell’esistenza.
Mi è stato chiesto di parlare dell’attualità del santo Curato: lo ha fatto egregiamente il Papa nella Lettera in occasione del 150° anniversario del dies natalis di Giovanni Maria Vianney. Personalmente ho ritenuto di non dovermi mettere a fare la parafrasi a quel gioiello del messaggio papale, che ha bisogno di essere solo letto e attentamente meditato. Ho cercato modestamente di fare un lavoro di restauro dell’immagine deformata del santo Curato, eliminando stereotipi e orpelli, in modo che tornasse a brillare il suo profilo autentico. Solo apparentemente il santo Curato è un santo fuori dal comune. Questo testimone, lungi dall’essere prigioniero della polvere di un passato superato, è più che mai attuale. Cosa c’è infatti di meno antiquato della santità e di più giovane dell’amore? Ad invecchiare invece sono le mode, anche quelle culturali e devozionali: la moda è sempre effimera e passeggera. Non è forse vero che chi sposa la moda oggi, resterà vedovo domani?
Un prete francese, André Dupleix, ha intitolato un suo saggio sul Vianney, L’insistenza dell’amore. Questo è anche il titolo dell’ultimo capitolo, che l’Autore motiva così: “Non è esagerato affermare che, nella storia di Ars, tutto convergeva verso la rivelazione di Dio all’uomo, verso ‘l’epifania’ dell’amore creatore e salvatore.. Tutto, compreso ciò che poteva apparire come debolezza o instabilità. Tutto, compresa la sofferenza. In Monsieur Vianney l’amore ha determinato tutto, fino all’ultimo istante” (D 240).
Nella sua prima enciclica, Redemptor hominis, Giovanni Paolo II aveva scritto: “L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente”. Queste parole sembrano prese di peso dal Curato d’Ars: L’uomo, creato per amore, non può vivere senza amore.
Questo è il messaggio di Ars, un messaggio positivo e sorprendentemente dinamico: Dio è amore: siamo stati creati e salvati perché ci ama perdutamente. La nostra felicità è quella di riamarlo altrettanto perdutamente. Non c’è felicità più grande sulla terra.
Caterina Lassagne racconta così gli ultimi giorni del vegliardo: “L’amore che aveva per il suo Dio sembrava crescere a mano a mano che diminuivano le sue forze. Alzarsi ogni giorno all’una di notte era diventata una prova eroica, ma non desistette fino all’ultimo giorno. Predicava con insistenza sulla pace, sulla speranza e sull’amore e il suo modo di dire Messa sconvolgeva i presenti”. Stava salendo verso Gerusalemme… Mio Dio, vi amo, accrescete il mio amore per voi nel mio cuore, sempre più, da questo istante fino alla mia morte.
La fiamma che aveva illuminato tanti, ora si andava spegnendo. Fino all’ultimo conservò la sua estrema delicatezza e la sua attenzione verso i pellegrini, ai quali sentiva di essere sottratto. Ne fece chiamare ancora qualcuno in canonica che confessò. Il medico veniva a visitarlo in continuazione. Il signor Curato mormorò: Mi restano trentasei franchi. Pregate Caterina di prenderli e di darli al dottore. E’ tutto ciò che mi resta… E ditegli che ormai non venga più a visitarmi, perché non avrei più soldi per pagarlo.
In quei primi di agosto del 1859 il caldo era insopportabile. I parrocchiani di Ars avevano avvolto tutta la canonica con dei grandi teloni che bagnavano a intervalli con secchi d’acqua, perché il loro parroco non dovesse soffrire troppo la calura micidiale di quei suoi ultimi giorni.
L’ultima testimonianza è quella dell’abbé Monnin: “Nel momento in cui pronunciai le parole: Ti accolgano gli angeli santi di Dio… senza agonia, senza lotta, senza sussulti, il suo respiro si spense ed egli si addormentò serenamente tra le braccia del Signore”. Erano le due del mattino del 4 agosto. La sua preghiera si era compiuta. Aveva chiesto a Dio: “Mio Signore, fatemi la grazia di morire amandovi e sentendo solo di amarvi. Mio Dio, a mano a mano che mi avvicino alla fine, fatemi la grazia di accrescere e di perfezionare il mio amore”. Come Gesù, aveva amato fino alla fine. La lotta tra la “resistenza” alla tentazione della disperazione e la “resa” all’abbandono fiducioso alla misericordia divina si era conclusa con la vittoria dell’amore. Per amare Dio e gli altri, il Curato aveva totalmente dimenticato se stesso. L’Amore gli fece grazia e compì l’ultimo miracolo: alla fine condusse il santo Curato ad amare quel poveretto che egli aveva sempre ritenuto l’ultimo peccatore al mondo: se stesso!
Tornano alla mente le ultime parole di un altro curato di campagna, il curato di G. Bernanos: “Tutto è grazia. Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morte ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo. Tutto è grazia”.
Bologna, 9 dicembre 2009
+ Francesco Lambiasi
[1] Sulla figura e il messaggio del Curato d’Ars, cfr A. MONNIN, Il Curato d’Ars, Pesaro 2009 (è la traduzione it. della prima biografia, in fr., pubblicata nel 1861, appena due anni dopo la morte del santo); F. TROCHU, Il Curato d’Ars, Torino 1961 (la prima ed. uscì nel 1925 in occasione della canonizzazione); M. JOULIN, Il Curato d’Ars – Un prete amico, Roma 2009 (prima ed. fr. 1986); siglato in seguito J.; A. DUPLEIX, L’insistenza dell’amore, Roma 2009 (prima ed. fr. 1986); siglato in seguito D. Per una lettura sintetica, in chiave spirituale, della vita, del ministero e del messaggio del santo Curato, cfr BENEDETTO XVI, Lettera per l’indizione dell’anno sacerdotale, in occasione del 150° del dies natalis di Giovanni Maria Vianney, 16 giugno 2009. Sempre utile e stimolante, A. BALLESTRERO, Alla scuola del Curato d’Ars, Casale M. 1995.
N. B. Le frasi del Curato riportate nel testo senza il rimando alla fonte, sono tratte da questi volumi appena citati. Ad ogni modo per una antologia dei suoi pensieri, suddivisi per aree tematiche, si può vedere IL CURATO D’ARS, Pensieri, Osimo 2009.
[2] R. FOURREY, Il Curato d’Ars autentico, Roma 1967, 158s.
[3] Ivi, 159s.
[4] B. BRO – M. CARROUGES, Il Curato d’Ars Giovanni Maria Vianney, Brescia 1986, 51.
[5] B. NODET, Jean-Marie Vianney, curé d’Ars. Sa pensée, son coeur, Le Puy 1958, 242.
[6] Il discorso si dovrebbe allargare anche al modo con cui il Curato parlava di sé: per la sua autoironia fine e arguta, cfr le opere indicate sopra, alla nota 1. Interessante anche l’equilibrio teologico con cui il Curato parlava della B.V. Maria; ad esempio, un giorno un devoto gli portò una immagine della Madonna, da benedire, con sopra scritto: “Maria, sorgente di tutte le grazie”. Il santo Curato con la sua grossa penna cancella la parola sorgente e scrive canale (J. 125).
[7] In tempi di scarsa sensibilità nei confronti della sacra Scrittura, senza fare del Curato un antesignano del rinnovamento biblico – non possedeva neanche una Bibbia completa! – la citazione seguente mostra non solo il suo attaccamento al breviario – che non tralasciava mai, neanche nelle giornate più intasate e pesanti – ma anche il suo amore alla Bibbia: Il breviario è il mio fedele compagno: non potrei andare in nessun posto senza di lui. Non vi sono grazie particolari annesse alla sacra Scrittura? Il breviario è composto dei brani più belli della sacra Scrittura e delle più belle preghiere ( J. 50).