Omelia del Vescovo per la Presentazione del Signore, Celebrazione per la Vita Consacrata
Festa dell’incontro. Così veniva intitolata la festa della presentazione del Signore fin dal V secolo dalla Chiesa orientale. L’incontro non è solo tra Gesù con Maria e Giuseppe da una parte, e Simeone e Anna dall’altra. In realtà, con il rito della presentazione di Gesù al tempio, “il Signore veniva incontro al suo popolo”, abbiamo ascoltato dalla ‘esortazione’ con cui si è aperta la liturgia in corso. Anche noi siamo venuti incontro al Signore con le lampade accese, in questo preludio della prossima veglia di Pasqua – la madre di tutte le veglie – quando entreremo in chiesa al buio con le nostre fiammelle palpitanti, in processione dietro al cero pasquale, simbolo di Cristo luce del mondo.
1. Qui ora è tutto solenne, tutto radioso e irradiante. Eppure se guardiamo il mondo attorno a noi, potremmo sembrare a molti di essere gente fuori dal mondo. Forse rischieremmo di passare per persone esaltate o depresse, illuse o frustrate. In realtà noi siamo qui perché Lui non si è ancora stancato di noi. E noi non ci siamo ancora pentiti di avere inseguito quel sogno che abita, insonne, l’abisso di ogni cuore. E’ il sogno di poter saziare l’insaziabile bisogno di amore: di amare e di essere amati. E’ la ricerca irrefrenabile di un bene Il desiderio lancinante di una bellezza incontaminata. Il travolgente bisogno di una verità che non si può né oscurare né scolorire… Noi siamo qui, consapevoli di non poter esibire alcuna carta di credito, al suo sportello. Quel giorno, quando Lui passò, siamo rimasti feriti dal suo sguardo magnetico, attraversato da lampi di gratuita, sviscerata misericordia. E ci siamo arresi alla sua imprevedibile, eccedente promessa: “il centuplo già ora, in questo tempo, e la vita eterna nel tempo che verrà” (Mc 10,30).
Noi siamo qui oggi per avvertire di nuovo, quasi a pelle, il santo brivido di quel primo incontro, quando Lui incrociò il nostro cammino e ci chiamò a seguirlo. Alle sorgenti della nostra sequela non c’è una utopia chimerica e lontana. Né una gelida dottrina, da scongelare e poi surriscaldare. E nemmeno un grande valore etico, per quanto nobile, come la pace, la giustizia, l’uguaglianza sociale. Un sogno si insegue, un valore si persegue, una persona si incontra e si segue.
La scorsa settimana il Papa ai vescovi e sacerdoti del Perù ha detto:
“L’incontro con Gesù cambia la vita, stabilisce un prima e un poi. La memoria di quell’ora in cui siamo stati toccati dal suo sguardo: quando ci dimentichiamo di questa ora, ci dimentichiamo delle nostre radici; e perdendo queste coordinate fondamentali mettiamo da parte la cosa più preziosa che una persona consacrata può avere: lo sguardo del Signore”.
2. Voi, Sorelle e Fratelli consacrati, siete qui perché potete e volete confessare con l’apostolo Giovanni: “Abbiamo incontrato l’Amore e abbiamo creduto in lui”. Voi vi siete sentiti amati perché siete stati scelti. Scelti, e perciò chiamati. Quella Voce non vi rivolse una proposta general generica. Pertanto non le si addiceva una risposta di calcolo e di convenienza. A una chiamata d’amore si risponde sempre e solo con una risposta d’amore. Si risponde con un “subito”, con un “eccomi, io vengo” che dice una sconfinata fiducia, una smisurata disponibilità. A un Dio che si fida di me e si affida a me, posso solo rispondere con un affidamento umile, grato e riaffermato giorno dopo giorno – al di là di passi falsi, di qualche brutto scivolone, forse anche di qualche azzardata giravolta, per poter ridire la passione sincera del cuore e la tenace tensione del cammino.
Voi, Consacrate e Consacrati, avete trovato il tesoro e avete rinunciato a tutto per seguire l’unico amore della vostra vita. Amore unico è amore totale, totalitario, esclusivo. Mai però escludente. Piuttosto è inclusivo, aperto, accogliente. Voi lo sapete: amare non concede scampo. E’ uscire da sé, è lasciarsi espropriare. E’ lasciarsi trapiantare in petto il cuore di Cristo e con il suo cuore misericordioso andare incontro agli altri. Amare è stare dalla parte di chi non conta niente. E’ rinunciare a ogni privilegio e perfino ai propri legittimi diritti, perché la giustizia sia più luminosa, la carità più trasparente, la testimonianza più credibile. Amare è condividere il pane e la gioia, spartire i talenti e il pianto. Amare è testimoniare con la propria vita personale e con la testimonianza della comunità di vita la presenza del regno di Dio su questa terra, come lievito di futuro. Anche se il regno è appena in boccio, e non ancora in piena fioritura.
3. Concretamente con la vostra scelta di povertà radicale voi dite alla Chiesa e al mondo che non è il denaro il tesoro della vita. Certo, ad una comunità religiosa il denaro serve, ma solo se “serve” quel tanto che basta a condurre una vita semplice e sobria, che si possa definire evangelicamente povera, e non ci si lascia invece scandalosamente asservire dal dio-denaro e spadroneggiare dall’idolo del profitto. Del resto, se si potesse trovare in noi anche solo qualche spicciolo della follia dei santi come Francesco e Chiara, come Madre Teresa e Don Oreste, allora molta più gente farebbe la coda per unirsi a noi.
Con la vostra scelta della castità consacrata voi ci dite che il tesoro della vita non è il piacere egoistico e possessivo. Una comunità casta sarà segno del Regno solo se non abbina la tolleranza per l’altro simile a me con l’aggressività verso l’altro diverso da me. La castità di buona lega è la promessa di amare l’altro che ci fa ombra, lo straniero minacciato, il diverso emarginato. Ma questo amore deve cominciare dall’interno stesso della comunità religiosa: se si sanno abbracciare i fratelli o le sorelle che non la pensano come noi, di cui è difficile sopportare i difetti e, talvolta, persino contrarietà e fastidi.
Infine con la vostra scelta dell’obbedienza voi ci dite che neppure il potere è il tesoro della vita. Ci dite che non è vero il “sogno americano”: “ognuno ha il potere di essere tutto quello che vuole, e basta solo avere fiducia in se stessi!”. Ci dite ancora che avete rinunciato al mito dell’autorealizzazione e dell’autogestione narcisista della vostra vita, convinti che la vera libertà non si attua nel geloso possesso di sé, ma piuttosto nel gratuito, generoso dono di sé. Lo spazio della vera libertà è il servizio della vera carità.
Sorelle e Fratelli consacrati, che lo Spirito santo vi trasformi in discepoli grati, miti, forti e lieti. Fra poco rinnoverete, nella grazia dello Spirito Santo, i vostri voti di castità, povertà e obbedienza, in unione a Gesù che si offre al Padre.
Questa è la vostra presentazione al tempio.
Che sia anche l’offertorio della vostra vita.
+ Francesco Lambiasi
Rimini, Basilica Cattedrale, 2 febbraio 2018