I Magi hanno seguito la stella, ma non hanno incontrato una star
Omelia del Vescovo per la “Messa dei Popoli”
C’è un proverbio cinese che dice: “Se vuoi tracciare dritto il tuo solco, lega il tuo aratro ad una stella”. I Magi non erano agricoltori: non lavoravano la terra, studiavano il cielo, ma non erano astronomi nel senso moderno del termine. Perciò non usavano né aratri né telescopi. Forse, in prima approssimazione, si potrebbero definire astrologi: ce ne parla san Matteo, in una pagina che però è un brano di teologia, non di astrologia. E’ un vangelo, non diverso dal vangelo di Natale, ma è l’esplosione del lieto messaggio trasmesso nella Notte santa. In due parole, questa è la grande, bella notizia dell’Epifania: Dio ci ama e ci vuole felici: tutti. Fratello, Sorella, se cerchi Dio, stai contento: certamente lo incontrerai; non devi romperti la testa né fasciartela prima di rompertela, perché Dio ha mandato suo Figlio a cercare proprio te. Se ti senti lontano da lui, non aver paura: lui è venuto proprio per te e per quelli come te. I Magi lo hanno incontrato, perché lo hanno cercato. E lo hanno cercato perché si sono lasciati intercettare dalla “sua stella”. E a quella stella hanno legato carri e cavalli. Ma, se leggiamo bene, il verbo cercare non è solo il titolo del primo episodio della loro storia; è il filo rosso di tutte le puntate della loro stupefacente avventura.
1. Cercare è rischiare
Ma cosa ha significato per i Magi cercare la Verità? e che cosa significa per noi?
Cercare la Verità significa interrogarsi e mettersi in questione. I Magi venivano da lontano, non appartenevano al popolo ebreo; molto probabilmente credevano a divinità astrali. Per essi quella piccola stella non era il simbolo della fede nel Dio unico, ma rappresentava una traccia del Mistero. E si sono messi in ricerca. Oggi, dopo la reazione dovuta alla illusione della dea-ragione e delle grandi ideologie, si respira un clima di vero e proprio scetticismo che porta il nome di “pensiero debole”: la nostra ragione – si pensa e si dice – accusa una sostanziale impotenza ad accettare la fluidità e l’inafferrabile complessità del reale. E, a livello di mentalità diffusa, si registra una forma di tolleranza, fondata su questo ragionamento: ognuno ha il diritto di credere nella propria verità, dato che questa va bene per lui, ma nessuno può permettersi il lusso di dare in merito un giudizio sulle verità credute rispettivamente da ognuno di tutti quanti gli altri. Insomma non c’è niente di oggettivo, tutto è relativo, e la sola verità universalmente valida è la necessità di rispettarsi a vicenda. Solo che in questa prospettiva tutto si equivale. Se è la mia adesione a rendere valida una idea, come faccio a decidere a quale idea aderire? La scelta, a questo punto, diventa arbitraria. Ma così si abortisce sul nascere ogni tentativo di ricerca, si finisce per spegnere le domande di fondo, si arriva ad esorcizzare la crisi di senso, ci si ritrova schiavi della “dittatura del relativismo”. Se fossero vissuti oggi i Magi e avessero tranquillamente aderito a questi teoremi, non si sarebbero certamente messi in cammino, e oggi noi non staremmo qui a celebrarne la memoria.
Cercare Dio significa uscir fuori. L’evangelista Matteo ci attesta che i Magi venivano “da lontano”. Seguendo una tenue traccia nel cielo, hanno avuto il coraggio di lasciare la loro terra, di congedarsi dalle loro case, di salutare le loro comode abitudini, per rintracciare una risposta alle domande più impervie della mente e del cuore. Hanno avuto la libertà di ‘uscir fuori’ dal cerchio caldo di rassicuranti legami affettivi, ma anche da schemi mentali cristallizzati, da certezze ormai acquisite, dai facili slogan in circolazione. Cercare significa mettersi in cammino, percorrere strade ignote e sentieri pericolosi, con intelligenza d’amore.
Cercare Dio significa rischiare: rischiare di sbagliare strada, tempi, soste, informazioni, equipaggiamento, e alla fine rischiare di fallire la meta. I magi non hanno avuto paura di sbagliare. In effetti hanno sbagliato città: sono andati a finire a Gerusalemme, anziché a Betlemme; hanno sbagliato consiglieri: si sono fidati del soggetto meno affidabile di tutti, come Erode; a un certo punto hanno anche smarrito l’unica guida sicura, la stella.
Cercare Dio significa lasciarsi sorprendere: i Magi hanno seguito la stella, ma alla fine non hanno trovato una star, un v.i.p., un divo della politica, delle finanze, dello spettacolo. Forse si aspettavano di bussare a una reggia e si trovano davanti a una misera baracca sgangherata; forse si illudevano di vedere un re-fanciullo con tanto di scettro e di corona, di forzieri sfavillanti e di impettite guardie d’onore. Uno che tenesse in mano tutti. Invece si ritrovano un bambino che si mette nelle mani di tutti. Un bambino del tutto normale, con qualche straccetto addosso, forse anche maleodorante di latte e di puerizia.
Cercare Dio significa fidarsi e affidarsi: significa seguire i ripidi sentieri dell’audacia e della fiducia. Perché di Dio ci si può fidare: lui non fa il latitante, non si rende irreperibile, non gioca mai a nascondino, ma si lascia sempre trovare da chi lo cerca con cuore sincero. Anzi quando lo si incontra, ci si rende conto che era stato lui il primo a cercarci e a metterci in cuore il segreto desiderio di poterlo abbracciare.
2. Una Chiesa per quelli di fuori
Ma noi, che ci autodefiniamo credenti, a chi rassomigliamo? Non penso, certamente, ad Erode: il suo ghigno è talmente beffardo e ripugnante che lo respingiamo al mittente, anche al solo sentirne parlare. Ma ci dovremmo sinceramente interrogare se per caso non rassomigliamo alla casta degli scribi e dei sadducei di Gerusalemme: gente che sa a memoria la risposta esatta, che può anche conoscere i passi biblici sul Messia, ma non si scomoda per andarlo a riconoscere. Gente che muove gli occhi sulle Scritture, ma non muove i piedi per andare incontro alla Parola incarnata nelle Scritture. Oh, per carità, noi, certo, veniamo incontro a questa Parola, se è vero che siamo usciti di casa e siamo venuti a messa per ascoltare la Parola incarnata. E tra poco ci muoveremo in processione per venire qui a fare la comunione. Ma se facciamo la comunione con il Pane eucaristico e poi non condividiamo il pane quotidiano con chi non ce l’ha, questa comunione è veramente un mangiare la cena del Signore oppure è un ingoiare la nostra condanna?
Se poi con questi fratelli condividiamo le preghiere ma non le pene, se poi spartiamo la liturgia ma non la vita, se poi non facciamo nostro l’impegno per rivendicare i loro sacrosanti diritti, se poi apriamo loro le porte della chiesa ma non le porte di casa, allora a chi lo andiamo a dire che noi siamo tutti fratelli?
Riconosciamolo: abbiamo comunità chiuse, che scoprono la loro missionarietà verso i ‘lontani’ di tanto in tanto. E quando diciamo ‘lontani’, in genere pensiamo a quelli che si sono allontanati, mentre dovremmo pensare anche a quelli che sono stati da noi allontanati. Comunque, cosa stiamo facendo per “quelli di fuori” (cfr Col 4,5) che pure ci si fanno vicini, in occasione di richieste di funerali, di battesimi, di iscrizione dei figli al catechismo…? Ecco, sappiamo valorizzare “ogni occasione” (ivi) per aiutare questi fratelli e sorelle a riscoprire la bellezza della fede cristiana con la proposta del primo o secondo annuncio del vangelo? Ci ricordiamo che noi cristiani siamo solo di Cristo, ma Cristo non è solo di noi cristiani?
Forse, a questo punto, ci conviene sostare e affidare pensieri e domande ai versi di questa stupenda preghiera: Magi, voi siete i santi più nostri, /naufraghi sempre in questo infinito, /eppure sempre a tentare, a chiedere, / a fissare gli abissi del cielo, / fino a bruciarsi gli occhi del cuore (Turoldo).
Rimini, Basilica Cattedrale, Epifania 2014
+ Francesco Lambiasi