Servire: verbo divino
Omelia del Vescovo nella Messa “in cena Domini”
13 di nisan dell’anno 30. A Gerusalemme sta calando la sera che precede i giorni più solenni dell’anno, fino a culminare nel sabato della Pasqua. Progressivamente, il silenzio argentato della luna piena, che prende possesso delle viuzze ormai deserte, sta diventando rito, canto, preghiera. Gesù siede a mensa con gli amici più intimi, i suoi amatissimi discepoli, e ha la più lucida consapevolezza che sarà l’ultima cena della sua vita. Lo confida con parole toccanti: “Io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vita, finché non verrà il regno di Dio” (Lc 23,18). Ma essi sono troppo presi dalle solite, stucchevoli beghe su chi di loro sia il numero 1 in classifica, per trattenere nel cuore la parola di apertura del suo ‘testamento’: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 23,27).
1. ”Lavate i piedi gli uni agli altri”. Ma qui accusiamo la provocazione del più tenero dei discepoli, Giovanni. Una sgradevole provocazione al quadrato, la sua. Perché, tra i quattro evangelisti, è l’unico a riportare nel lungo sermone nella sinagoga di Cafarnao (cap. 6) la promessa di Gesù: “Io vi darò la mia carne da mangiare”. Ma poi, arrivati al racconto dell’ultima cena, il ‘discepolo amato’ sembra improvvisamente colto da un’amnesia imperdonabile, e in effetti risulta l’unico a tralasciare l’istituzione dell’eucaristia. Dimenticanza cercata e voluta a bella posta? Certo che sì, se nel suo racconto la consegna da parte di Gesù del proprio corpo e del proprio sangue – tramite il pane azzimo e la coppa di vino rosso – è sostituita dalla lavanda dei piedi. Altra provocazione: il gesto che Gesù compie risulta doppiamente insolito. Non solo per il momento in cui avviene: non all’entrata in casa e quindi prima della cena, ma durante. Inoltre appare un gesto strano e sconcertante anche per colui che lo compie: non i servi né tantomeno i discepoli, ma il Maestro in persona. Pietro ne resta sorpreso e sconvolto: l’ostinazione del suo rifiuto non è semplicemente la sbalordita reazione del primo dei Dodici che cerca di sottrarsi a un gesto di umiltà a cui, fino a tanto, il Maestro non si era ancora mai spinto. Quella di Simone è una ottusa incomprensione della via messianica che Gesù intende percorrere fino alla via del Golgotha.
Come interpretare questo segno posto da Gesù, il quale, dopo averlo compiuto, lo qualifica come esempio? Non può trattarsi certo di un gesto da ripetere in modo letterale. E’ vero che nella Chiesa primitiva una donna, per essere iscritta nel registro delle vedove, doveva aver “lavato i piedi ai santi” (1 Tm 5,10). Ma in bocca a Gesù la parola ‘esempio’ sembra voler indicare che la lavanda dei piedi voleva essere per lui un gesto simbolico.
Pertanto quel gesto non può essere inteso neppure in senso ritualistico, come una ‘cerimonia’ o una sorta di mimo, che si dovrebbe ripetere al posto – o prima o dopo – della celebrazione eucaristica. A differenza delle parole e dei gesti di Gesù sul pane e sul vino, dopo la lavanda dei piedi Gesù non dice: “Fate questo in memoria di me”. Non resta allora che interpretare quel gesto-segno in senso esistenziale: Gesù vuole che i suoi discepoli si lavino i piedi gli uni gli altri, cioè devono amarsi reciprocamente con spirito umile, grato e gratuito. E non a parole, ma con gesti concreti e con segni limpidi e tangibili.
2. “Amatevi gli uni gli altri”. L’amore, è stato detto, è come il mal di denti: se uno ce l’ha, ce l’ha. Non lo si può nascondere a lungo. Così è per l’amore cristiano. Una ecclesìa, una comunità di credenti, che intendesse l’amore fraterno come una vaga aspirazione o come una emozione puramente intima e sentimentale finirebbe per rendere illeggibile la effettiva connessione della stessa comunità con Cristo. Mentre invece deve trattarsi di una esperienza concreta e riconoscibile da tutti, che tutti in qualche modo devono poter toccare con mano. Gesù infatti dice che “tutti sapranno”, e vuol dire che non solo i credenti, ma soprattutto i non credenti dovranno poter risalire dall’effetto sorprendente di una limpida, cordiale fraternità, fino ad intercettare la sua causa, che non può essere altra dall’esempio e dal testamento lasciato dal Maestro ai suoi.
“Se avrete amore gli uni per gli altri”. La carità fraterna non può essere neanche puramente ‘soprannaturale’, perché quando i discepoli di Gesù dicono di amarsi ‘soprannaturalmente’, è molto probabile che non si amino affatto. Deve essere piuttosto un amore sostanziato di dedizione, di delicata premura, di paziente tessitura delle relazioni, di limpida gioia. E non può non riflettersi anche all’esterno. Non è un amore che o c’è o non c’è, non fa la differenza. Anzi con l’amore o senza l’amore, tutto cambia: la cultura, l’etica, la politica, perfino l’economia.
Soprattutto devo ricordare alcuni messaggi del tutto imprescindibili. Il primo: un conto è parlare di amore, un altro conto è amare. Un secondo messaggio lo prendiamo dalle labbra di Madre Teresa di Calcutta: “Non importa quanto si dà, ma quanto amore si mette nel dare”. Potremmo parafrasare: “Non importa quanto si fa, ma quanto amore si mette nel fare”. E ancora: “Non importa quanto si soffre per amare, ma quanto amore si mette nel soffrire”. La litania potrebbe continuare… Infine conviene portarci a casa un terzo messaggio: “Amare qualcuno significa dirgli: Tu non morirai” (G. Marcel) Possiamo aggiungere: “Amare gli altri in Cristo significa collaborare per la loro completa risurrezione”.
Rimini Basilica Cattedrale, 13 aprile 2017
+ Francesco Lambiasi