“Ogni lingua lo proclami!” (Fil 2,11)
Omelia del Vescovo per la Messa nel giorno di Pasqua
Tutto il cristianesimo in una sola parola: si può? Sì, si può! Eccola, nella lingua greca in cui quella parola fece il giro del mondo: eghèrthe. Letteralmente significa: “è stato ridestato” (sott.: “dalla morte”), cioè “è risorto”. Non è una formula impersonale: ha un soggetto, Gesù di Nazaret. A lui si riferisce l’evento insuperabile della risurrezione, e quindi nella sostanza è lui il “cuore” pulsante del messaggio cristiano. L’evento è avvenuto presumibilmente nella notte tra l’8 e il 9 aprile dell’anno 30 dell’era cristiana. Pertanto al centro del messaggio cristiano c’è l’annuncio non di un valore asettico e distante, per quanto nobile e pregevole, ma di un avvenimento: nientedimeno che una risurrezione! Ma poiché tale avvenimento è tutto relativo alla persona di Gesù di Nazaret – persona unica, singolare, irripetibile – allora tutto il cristianesimo si concentra nell’annuncio non di una fredda formula filosofica o di una complicata categoria teologica, ma del nome stesso di Gesù. Questa è la scintilla da cui è sprizzato il grande fuoco che ha incendiato e continua ad illuminare e a riscaldare il mondo intero.
1. A seguito e in virtù della sua risurrezione, il titolo più tipico e più comune che la prima comunità cristiana ha attribuito al Crocifisso-Risorto è Signore. Questo titolo esprime la chiara ed esplicita consapevolezza della diretta connessione con la nuova condizione di “risorto” del figlio di Maria, al quale “è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18). Tale connessione è apertamente dichiarata nella formula di fede, riportata nella Lettera ai Romani, quale era proposta ai neofiti:
“Se confesserai con la tua bocca che Gesù è Signore,
e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvo” (Rm 10,9).
Per capire bene che cosa significhi questo titolo di “Signore”, dobbiamo ricordare che quando Mosè davanti al roveto ardente domandò a Dio quale fosse il suo nome, Dio rispose : “Io-Sono è il mio nome”. Un nome che però i nostri fratelli maggiori, gli ebrei, ancora oggi ritengono indicibile e impronunciabile, e che sostituiscono immancabilmente con Adonai, in greco Kyrios, in italiano Signore. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo scrive che “Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e a una morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome”. L’Apostolo si astiene anche lui dal pronunciare il santo Nome di Dio: lo sostituisce con il greco Kyrios, e aggiunge: “Ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: ‘Gesù Cristo è Signore!‘, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,6-11). Ma ciò che san Paolo intende con il titolo di “Signore” è precisamente quel santo Nome che proclama l’Essere divino. Il Padre ha dato a Cristo – anche come uomo – lo stesso suo Nome e il suo stesso potere (cfr Mt 28,18): questa è la verità inaudita racchiusa nella proclamazione: “Gesù Cristo è Signore!”. Il Risorto è “Colui che è e che c’è“, il Vivente. Pertanto l’itinerario del “cuore” del messaggio evangelico o kerygma si può scolpire con tre frasi lapidarie: “Gesù Cristo, il Crocifisso, è morto! Gesù, il Crocifisso morto, è risorto! Gesù Cristo, il Risorto da morte, è il Signore!”. Sono tre passaggi sinteticamente formulati da Pietro, al termine del suo primo discorso missionario, tenuto il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme, di fronte a una folla di circa tremila persone: “Quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha costituito Signore e Cristo” (At 2,36).
Apparentemente, per noi cristiani, nulla è più familiare del titolo di “Signore” attribuito a Gesù. Quel titolo è diventato un elemento fisso, immancabilmente abbinato al nome stesso con cui invochiamo Cristo al termine di ogni preghiera liturgica. Ma un conto è dire: “il nostro Signore Gesù Cristo”, e un altro dire: “Gesù Cristo è il nostro Signore!”. Per secoli, fino a qualche decennio fa, la proclamazione stessa – “Gesù Cristo è Signore! – che chiude l’inno della Lettera ai Filippesi, era rimasta come sepolta sotto la cenere di una errata traduzione. La Volgata, infatti, traduceva: “Ogni lingua proclami che il Signore Nostro Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”, mentre – come ora sappiamo – il senso non è che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre, ma che “Gesù è il Signore”, e questo lo proclamiamo “a gloria di Dio Padre!”.
2. A questo punto non vorrei dare neanche la benché minima impressione che tutto questo intreccio di pensieri e tutti questi giri di parole siano questioni sofisticate, strettamente riservate a studiosi della Bibbia o a specialisti della liturgia. O che, peggio ancora, la cosa riguardi solo Gesù come Signore, e non interessi per nulla la storia dell’umanità e non ‘intrighi’ affatto la nostra povera esistenza. Vorrei allora accennare brevemente alla “ricaduta” storica ed esistenziale, ossia alla valenza oggettiva e soggettiva che il grido contenente la professione di fede – “Gesù è il Signore!” – riscontra nella storia e nella vita.
Con l’incredibile sorpresa della risurrezione di Cristo e per il fatto che ormai “c’è un solo Signore nei cieli e in lui non vi è preferenza di persone” (Ef 6,9), la storia umana – è la valenza oggettiva – ha imboccato il rettilineo che ha condotto all’abolizione di ogni discriminazione razziale, sociale, sessuale. Tutti i battezzati in Cristo formano un’unica famiglia, in cui – afferma radicalmente san Paolo – “non c’è (più) né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina” (Gal 3,28). Di qui è nato e si è sviluppato, lentamente ma inesorabilmente, il cambiamento di prospettiva che ha portato, dentro la civiltà cristiana, all’abolizione irreversibile della schiavitù. Rifiutare la signoria di Cristo significa inequivocabilmente ricadere sia nell’assoggettamento ad altre signorie e dispotiche tirannie, che all’asservimento ad eventuali nuovi “padroni di uomini”, o ad ideologie disumane e aberranti. Diceva bene, al riguardo, s. Ambrogio: “Quanti padroni finisce con l’avere, chi rifugge dall’unico Signore!”.
Ma la signoria – mai tirannica, ma sempre salvifica e liberante – di Gesù, il Crocifisso-Risorto, ha anche un imprescindibile valenza soggettiva. In effetti riconoscere che Gesù è il Signore significa sottomettersi alla sua signoria ed entrare liberamente nella sfera del suo dominio. E’ come dire: Gesù Cristo è il mio Signore. E’ lui, e solo e sempre lui, il senso e lo scopo della mia povera vita. Pertanto credere che Gesù è il Signore, non significa ritenere che lui sia il Signore di tutti e di nessuno. Significa piuttosto vivere per lui, non più “per me stesso”. Leggiamo nella Lettera ai Romani: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm14,7-8). Oramai la contrapposizione più inconciliabile e stridente non è più tra il vivere e il morire, ma è tra il vivere “per il Signore” e il vivere “per se stessi”. “Vivere per se stessi è il nuovo nome della morte” (Cantalamessa).
Al termine del triduo pasquale, in cui l’inno cristologico di san Paolo ai Filippesi (2,6-11) ha fatto da filo conduttore delle omelie e delle catechesi sviluppate nelle liturgie del giovedì e del venerdì santo, permettetemi di proclamare per intero quell’inno, mentre a conclusione, vi invito a levarvi tutti in piedi per dare l’assenso della vostra fede e gridare forte il vostro Amen.
– Rimini, Basilica Cattedrale, 5 aprile 2015 –
+ Francesco Lambiasi