Quando lo Spirito si unisce al nostro spirito
Omelia tenuta dal Vescovo nella festa di s. Francesco d’Assisi
Non basta Francesco d’Assisi per spiegare… san Francesco d’Assisi. Nessun santo può dire: “Io sono il padre del mio io”. O ancora: “Io mi sono convertito da solo”. O addirittura: “Io mi sono fatto santo da me”.
1. La conversione non è – e non può essere – il frutto di ardenti desideri di santità. Né di fantasmagorici sogni di felicità o di sofisticati progetti di perfezione. E neppure può essere il frutto di intrepidi sforzi ascetici o di spossanti penitenze corporali. Pertanto la porta della cella segreta – fuor di metafora, la porta della vita interiore – di un santo non si apre con la chiave di sottili analisi psicologiche o di raffinate indagini sociologiche. La conversione di un poveruomo non si spiega come il frutto di un particolare ambiente devoto o di dinamiche prettamente affettive o emozionali. E’ gratuita. Proviene da altrove.
Del resto non si può trascurare un dato incontrovertibile: la vicenda di Francesco affonda in una vita interiore che è per se stessa un dono e una manifestazione dello Spirito di Dio. Se non si mette a bilancio la presenza dello Spirito Santo nel percorso spirituale di Francesco, ci si deve fatalmente arrendere davanti alla sproporzione incolmabile tra i nostri poveri sforzi di santità e i nostri impulsi e sentimenti umani – troppo umani! –, da una parte, e, dall’altra, il risultato eccedente di una perfetta conformazione a Cristo. Il segreto della fecondità apostolica di Francesco va intercettato tutto qui: nella sua totale disponibilità all’azione dello Spirito Santo. In breve: la vita nuova nello Spirito si può comprendere solo con l’influsso determinante che proviene dallo Spirito della vita nuova.
2. Ce lo insegna quell’esperienza decisiva nella ‘costruzione’ di un santo, qual è l’evento della Per Francesco fu una rottura o una rinascita? Certamente fu un’esperienza pasquale di morte e risurrezione. Francesco era uscito distrutto dall’anno di prigionia, nelle umide gelide celle del carcere di Perugia, grazie all’esoso riscatto sborsato dal padre. Lui, Francesco, era partito da Assisi con una fiammante armatura e con un purosangue scalpitante, entrambi fantastici regali di Pietro di Bernardone. Ora rimetteva piede nel paese natale sfiancato nel corpo, fiaccato nello spirito. E con una brutta depressione in via di aggravamento. Che pena deve essere stata per la mamma, la cortese e gentile donna Pica! Dov’era finito quel figliolo adorato, tenero e fragile, già re di feste, festini e notti bianche, sempre in giro con il chiassoso corteo svolazzante di giovani spensierati e di belle ragazze, tutte rapite da quel simpatico giovanotto, ‘piacione’ ed esuberante? Il giovane Giovanni chiamato Francesco non era certamente cattivo. Anzi era sempre stato devoto e praticante, con una spiccata sensibilità verso poveri e sofferenti. Certo, se donna Pica fosse vissuta ai nostri giorni, avrebbe dato il nome giusto alla sua malattia: narcisismo, per quel suo volere stare sempre al centro dell’attenzione, come si poteva desumere perfino dal suo vestire, quando chiedeva alla mamma di confezionargli indumenti sfarzosi cucendovi sopra toppe di panno grezzo (cf FF 1396).
Ma ora donna Pica, quel figlio, se lo ritrovava sfinito nel corpo e morto nel cuore. Allora aveva subito cominciato a raddoppiare preghiere ed elemosine, condite di abbondanti, amarissime lacrime. Eppure nutriva una incrollabile fiducia che un giorno il suo Francesco, ora sfatto e sfigurato, lo avrebbe rivisto risorto e trasfigurato. Passarono mesi e mesi di un crudo inverno, e quel giorno finalmente arrivò. In verità fu un giorno lungo tre giorni. Il primo giorno fu quello del bacio al lebbroso, così come viene raccontato nelle Fonti Francescane (n. 592). Da quel giorno Francesco smise di adorare se stesso (cf FF 324).
Il giorno dopo ci sarebbe stato l’episodio del Crocifisso di san Damiano. Da notare il tocco di Tommaso da Celano, il quale afferma che Francesco vi entrò “condotto dallo Spirito” (FF 393). Ma a me piace pensare che Francesco rimase abbagliato da un particolare: il Crocifisso aveva due occhioni neri e rotondi proprio come il lebbroso incontrato e abbracciato il giorno precedente.
Finalmente – oso immaginare – il terzo giorno Francesco comunicò al padre la sua irrevocabile decisione: andare a vivere da povero tra i poveri e i lebbrosi. E così, mentre il padre lanciava gemiti di rabbia e di disperazione per quel figliolo scapestrato che stava dando di matto e per questo lo ripudiava come figlio, la mamma piangeva lacrime di commozione, perché quel figlio “era morto ed era tornato in vita, era perduto ed era stato ritrovato” (Lc 15,33).
E lo Spirito Santo? Abbiamo visto i momenti più importanti della vita di Francesco, tutti punteggiati dalla ‘visita’ dello Spirito Santo. In effetti un biografo – s. Bonaventura – scrive in modo sintetico che tutta la vita del santo era stata “un’accoglienza totale dello Spirito Santo” (cf LegM 11,2; FF 1189). E i primi compagni ne scolpivano il profilo interiore in questi termini: “Non adeguava mai la sua condotta alle dotte sentenze della sapienza umana, ma all’ispirazione e al dinamismo dello Spirito” (cf AnPer 9; FF 1496). La riprova la si ha nel fatto che Francesco “lasciava i luoghi pubblici e frequentati, desideroso della solitudine, e qui spessissimo era ammaestrato dalla visita dello Spirito santo” (2Cel 9; FF 591).
Ed ecco due tra le tante testimonianze della considerazione che Francesco riservava alla presenza e all’opera dello Spirito del Risorto. Ai suoi frati raccomandava: “Facciano attenzione che sopra ogni cosa devono desiderare di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”, ossia di lasciarlo agire in loro (FF 104). E nella Lettera a tutto l’ordine, 1223, Francesco riconosceva che noi “possiamo seguire le orme del Signore nostro Gesù Cristo” solo se “interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo” (FF 233).
Rimini, Chiesa di san Bernardino (Clarisse)
4 ottobre 2018
+ Francesco Lambiasi