Omelia tenuta dal Vescovo nella Basilica Cattedrale in occasione della festa di s. Francesco d’Assisi
Rimini, 4 ottobre 2011
Il vangelo è un messaggio di gioia. Gesù è il primo evangelista, è il più forte e formidabile evangelizzatore. E’ lui che ha intonato quel cantus firmus della pace e della gioia qual è il vangelo, e che poi i santi di generazione in generazione hanno ripreso facendovi eco con il “quinto vangelo” della loro vita, e hanno continuato nei secoli. Di quel canto Francesco d’Assisi è senz’altro l’esecutore più fedele e, insieme, l’interprete più originale.
1. Senza stare a fare le lagne sulla nequizia di questi tempi – si sarebbe detto in passato – “di morta fede e di empietà trionfante”, non c’ è dubbio che noi viviamo in una stagione di crisi acuta, vasta, pervasiva. Ecco, la prima cosa che ci dice Francesco è di non aver paura della crisi. Perché dovremmo avere paura? La missione della Chiesa, il cammino delle nostre comunità, la nostra stessa vita personale sono saldamente ancorate alla storia di Cristo. E la vita di Gesù è stata segnata dalla crisi. In effetti la sua missione giunge alla crisi definitiva nell’ultima Cena. A quel punto il Maestro di Nazaret era stato già scaricato dalle folle, stava per essere processato e condannato dal potere religioso e politico, e ora il suo stesso gruppo – i Dodici – è sul punto di esplodere: Giuda l’ha appena venduto, Pietro sta per rinnegarlo, gli altri taglieranno ben presto la corda. La vita di Gesù è miseramente avviata verso il crack finale. Ma è proprio in quel momento che Gesù compie il gesto più carico di speranza: prende il pane e il calice del vino, ne fa il segno reale della sua vita e del suo sangue, e si dona irreversibilmente ai discepoli e a tutta l’umanità. Quando la comunità sta per disgregarsi, lui celebra una nuova alleanza.
La Chiesa stessa è nata da una crisi e da una offerta d’amore: Gesù non solo trasforma il pane nel suo corpo, ma trasforma anche la violenza in perdono, tramuta la consegna per tradimento in un’autoconsegna d’amore. In ogni eucaristia la Chiesa celebra e attualizza la memoria di questa crisi affrontata e felicemente superata. La Chiesa sa bene che seguire il suo Signore crocifisso significa per lei anche passare attraverso delle crisi.
Anche il tempo di Francesco d’Assisi è stato un tempo di profondi rivolgimenti, ma è proprio grazie alla testimonianza radicale e al fermento del suo messaggio se quella crisi, che poteva destabilizzare l’intera società e portare la Chiesa che “era tutta in rovina” ad uno sfacelo totale, si è trasformata invece in una inattesa e sorprendente occasione di rinnovamento.
Ecco il primo messaggio di Francesco: non avere paura della crisi. Non siamo noi i discepoli di colui che “ha vinto il mondo?”. E allora dobbiamo andare per il mondo – come recita la Regola – “in gioia e letizia”. Quest’anno si celebra l’VIII centenario della fondazione dell’Ordine e dell’origine della missione francescana. Mi sembra di intuire che al cuore della vostra missione, carissime sorelle e fratelli francescani, ci sia la gioia di Francesco e Chiara d’Assisi. Del resto nessuno crederà a un predicatore che porti una buona notizia con una faccia da funerale. Come ha scritto Nietzsche: “Il discepolo di Cristo dovrebbe sembrare un redento”. Un frate o una suora triste non potrebbe far parte dell’Ordine francescano!
2. E’ su questa “perfetta letizia” che vorrei qui brevemente riflettere con voi, religiose e religiosi, ma anche sacerdoti e fedeli laici, che vi riferite alla spiritualità del Poverello d’Assisi.
E’ vero: le persone saranno attirate al vangelo se troveranno in noi una gioia altrimenti inspiegabile, che non avrebbe alcun senso se Dio non ci amasse, se Gesù non fosse morto per noi e non fosse risorto per comunicarci il suo santo Spirito. Francesco si portava dentro una fame acuta di vita, una pungente sete di felicità, un insopprimibile bisogno di amore. Dell’amore, in senso attivo e passivo, cioè di essere amato e di amare. E ha scoperto che al cuore della vita di Dio sta una incontenibile gioia. Lo dico con le parole di un mistico medievale: “Il Padre sorride al Figlio e il Figlio sorride al Padre, e il sorriso genere piacere e il piacere genera gioia, e la gioia genera amore” (Meister Eckhart). Questo mistico afferma pure che la gioia di Dio è simile a quella di un cavallo che galoppa per il prato, scalciando in aria per puro divertimento.
La gioia di Francesco è stata quella di un uomo povero che accoglieva ogni cosa come un dono. Dal momento che non possedeva nulla, ha vissuto in un mondo di totale generosità. Il mendicare è stato per lui ben più che un atteggiamento di ingenua fiducia nella bontà altrui o di candido ottimismo. Era un modo di stare al mondo, quel suo guardare con stupore i doni che Dio nella sua misericordia gli concedeva gratuitamente: pane e acqua, aria e luce, fratelli e sorelle, caldo e perfino freddo, vita e perfino morte. Francesco “ha insegnato la grammatica della gratitudine” (G. Chesterton). Essere povero e mendicante era vivere in un mondo di doni, di fratelli e di sorelle, di frate sole, di sora acqua e addirittura di nostra sora morte corporale.
La gioia francescana offre una sfida al nostro villaggio globale e al nostro mondo postmoderno. Viviamo in un tempo che ha tristemente cancellato ogni sogno di futuro. Io sono cresciuto all’interno di una cultura che ancora credeva che l’umanità stava andando verso il sole dell’avvenire e faceva del mito dell’eterno progresso la sua bandiera fiammante. Per alcuni si trattava del paradiso capitalista, per altri del paradiso socialista. Cinquant’anni dopo quei sogni si sono in gran parte rivelati illusori. La guerra fredda è finita, il muro di Berlino è caduto, ma sono cadute anche le Torri Gemelle, e lo tsunami della crisi finanziaria ha fatto piazza pulita di miti e utopie, e ha trasformato i sogni più radiosi e i miraggi più ammalianti in altrettanti incubi spaventosi. Comunque se un vecchio mondo è finito, anche la storia è finita. Viviamo nella “generazione di oggi” (today’s generation), che ha una maledetta paura di pensare al domani.
Francesco insegna: la perfetta letizia è possibile, se ci sentiamo amati da Dio Padre, l’altissimo onnipotente e bon Signore, e se amiamo i fratelli in vera carità. Possiamo essere felici se ci prendiamo cura della felicità degli altri. Quando frate Ranieri stava attraversando un momento di sofferenza atroce e di penosa depressione, aveva bisogno anche solo che Francesco gli dicesse che gli voleva bene, cosa che fece prontamente: “Frate Ranieri, carissimo figlio mio, io ti voglio bene di un amore speciale; io ti voglio bene più che a tutti i frati di questo mondo”. Figli e figlie di Francesco e di Chiara, permettetemi una domanda: mostrate questa cura per i vostri fratelli e le vostre sorelle? E noi tutti apriamo gli occhi del cuore per guardare i fratelli e le sorelle con gli occhi di Dio?
Dicevo più su che il segreto della perfetta letizia francescana si trova nella gratitudine: accogliere tutto come dono, anche la crisi, anche il disagio, perfino la prova, addirittura il dolore. San Francesco ha insegnato non tanto con la lingua, ma con gesti simbolici, con comportamenti consapevoli e determinati, e perfino con atteggiamenti inconsci, al punto che “si potrebbe dire – ha scritto il Celano – che era diventato tutto lingua (per proclamare il vangelo)”. Ecco, san Francesco ha capito e insegnato con fatti di vangelo che non si dà opposizione tra l’amore per Dio e l’amore per le creature, dal momento che non si dà opposizione tra il Creatore e le creature. Piuttosto si dà opposizione tra l’amare le creature con Dio e in Dio, e l’amarle senza Dio e contro Dio.
Questa lezione ci riguarda tutti. La vorrei formulare con le parole di una poesia di delicato candore francescano:
Piangendo Francesco disse un giorno a Gesù:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle,
amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle…
O Signore, mi devi perdonare,
perché te solo io vorrei amare”.
Sorridendo il Signore gli rispose così:
“Amo il sole, amo le stelle,
amo Chiara e le sorelle,
amo il cuore degli uomini,
amo tutte le cose belle…
O Francesco, non devi piangere più,
perché io amo ciò che ami tu”.
+ Francesco Lambiasi