Omelia del Vescovo alla Messa del Corpus Domini
Mangiare. Verbo essenziale, determinante, indispensabile per i viventi. Verbo fisico, fisiologico, naturale per gli umani. Ma anche soprannaturale per i cristiani. Nel frammento di vangelo appena proclamato, in soli otto versetti questo verbo ricorre la bellezza di ben otto volte. Riprendiamo il primo e l’ultimo rigo che fanno da cornice a tutto il brano: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51.58). Nella seconda lettura della festa odierna san Paolo scrive: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10,16). Il messaggio è limpido e lampante: fondamentalmente l’eucaristia è un mistero di comunione.
1. Noi conosciamo diversi tipi di comunione. Quella tra gli sposi che formano una sola carne è, di suo, una relazione piena, totale, inseparabile. Altrettanto, quella tra la madre e il figlio portato in grembo. Ma in nessun caso si raggiunge l’apice insuperabile della comunione, perché ognuno degli individui resta contraddistinto dalla sua unica, irripetibile singolarità. Per vivere, il bambino deve uscire dal seno della madre. Altrimenti, inevitabilmente muore. Diversamente avviene tra Gesù e noi: una relazione in cui l’eucaristia annoda il legame più intimo, più stretto e inscindibile. E concretizza la più indivisibile e uni-ficante comunione possibile.
La metafora della ‘manducazione’ fisica è eloquente. Nella nutrizione è il principio vitale più forte che assimila quello meno forte, per cui il vegetale assimila il minerale, come i sali, l’acqua. Salendo di un grado nella scala dei viventi, l’animale assimila il vegetale, come gli erbivori che si nutrono dell’erba del prato.
Tornando al brano di san Paolo, l’apostolo ci ha ricordato con tenace insistenza non solo che il pane è corpo di Cristo, ma anche il calice è comunione con il sangue di Cristo. Che significato assumono queste parole corpo e sangue? Per noi occidentali, eredi della cultura greca, il corpo è una parte dell’uomo, che solo unito all’anima, forma l’essere umano completo. Pertanto il sangue, in quanto componente fisica, non è che una parte di una parte del corpo stesso. Nella concezione biblica, invece, corpo indica l’uomo in tutta la sua concretezza, in quanto vive in una dimensione corporale, non è un puro spirito. Il sangue poi, per un ebreo, è la sede della vita. Perciò, in quanto versato, il sangue è il segno plastico della morte. Quindi Gesù, dandoci il suo corpo, ci ha dato la sua vita. Dandoci il suo sangue, ci fa comunicare alla sua morte. Per noi, comunicarci significa entrare in comunione con Cristo, venire in contatto con la sua vita e la sua morte.
Certo il linguaggio di Gesù risulta urticante e repellente agli orecchi dei suoi interlocutori: mangiare carne umana era, nell’AT, cosa orribile, segno della maledizione di Dio. Bere, poi, il sangue degli animali – e ancora di più il sangue umano – era cosa disgustosa e abominevole. Un vero scandalo: il sangue è la vita, e la vita appartiene solo a Dio. Per questo, nei sacrifici al tempio, il sangue doveva essere sparso sull’altare del Signore a cui appartiene la vita.
Per Gesù, invece, il mangiare la sua vita e bere il suo amore porta un frutto immenso: il dimorare in lui, l’abitare l’uno nell’altro, in una intensa, compiuta comunione d’amore. Una comunione che non scade a fusione indefinita, ad ambigua confusione, a vicendevole annullamento, a un vorace divorarsi a vicenda. Come Gesù vive grazie al Padre, vive di lui, per lui, in lui, così è per chi mangia la sua carne. La comunione è assimilazione. Mangiando lui, diventiamo come lui: vivi per amore, come fratelli e sorelle, uniti in un cuore solo e un’anima sola.
2. Ma c’è di più. Poiché il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo e unico Dio, e dove c’è il Figlio, Gesù Cristo, c’è anche il Padre e lo Spirito Santo, allora nell’Eucaristia noi possiamo entrare in comunione con tutta la santa e indivisibile Trinità d’amore.
Ma c’è ancora molto di più. Nel brano della seconda lettura, abbiamo letto: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,17). Paolo non dice: “Noi partecipiamo di un solo pane poiché siamo un solo corpo”. Ma dice: “Noi siamo un solo corpo poiché partecipiamo di un solo pane”. Non è prima di tutto la nostra piena fraternità a consentire l’eucaristia. E’ piuttosto l’eucaristia a creare l’autentica fraternità. La comunità fraterna, più che la condizione di partenza, è il frutto e la conseguenza a cui tende ogni celebrazione. Ed è il traguardo da riproporsi continuamente, instancabilmente, progressivamente. Perché le resistenze della nostra libertà fragile e malata sono capaci di condizionare la libera iniziativa della grazia divina, e riescono perfino a ‘sabotare’ la Pentecoste permanente, generata dallo Spirito dell’amore.
Occorre pertanto vigilare e coltivare il carattere conviviale della celebrazione eucaristica. Ma l’eucaristia non è un banchetto funebre. Convivialità significa che la comunione sacramentale ha un carattere tutt’altro che intimistico e devozionale. La vita che il Signore viene a vivere in noi è la sua carità verso il Padre e verso tutti gli uomini. Unendoci a sé, Gesù risorto ci unisce anche tra di noi. Come i chicchi di grano si fondono in un solo pane e gli acini di uva in un solo vino, così noi diveniamo uno in Cristo.
E’ come se ogni comunicante potesse dire ad ogni membro dell’assemblea liturgica: “Non vivo più io. E’ Cristo che vive in me. Chi o cosa ci potrà separare dal suo amore, se viviamo tutti dell’unico pane spezzato che il Padre ci dona?”.
Rimini, Basilica Cattedrale – 14 giugno 2020
+ Francesco Lambiasi