Omelia tenuta dal Vescovo nel corso dell’azione liturgica del Venerdì santo
Terminato il racconto della passione secondo Giovanni, non ci resta che tacere e contemplare. Come abbiamo ascoltato, dopo la morte di Gesù, mentre i tre sinottici registrano la professione di fede del centurione romano – “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” – il quarto evangelista riporta un particolare marginale e apparentemente insignificante: uno dei soldati trafisse il fianco del Crocifisso ormai esanime. “E subito ne uscì sangue e acqua”. Per aiutarci a cogliere lo spessore di questo dettaglio, l’evangelista Giovanni utilizza una citazione del profeta Zaccaria: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”.
Ed è appunto quanto vogliamo fare noi ora, volgendo lo sguardo allo splendido Crocifisso, dipinto da Giotto, proprio qui nei pressi della nostra Cattedrale, nell’attiguo convento francescano, tra il 1299 e il 1300, quando l’insuperabile maestro ha sostato a lungo ad Arimino, mentre era in viaggio alla volta di Padova, dove avrebbe affrescato la cappella degli Scrovegni. Il suo maestro, Cimabue, aveva dipinto diversi crocifissi, in cui l’inarcarsi del corpo vuole esprimere tutto il tormento dell’atroce supplizio di Gesù in croce, come mettono in risalto soprattutto gli evangelisti Matteo e Marco. Giotto invece si distacca dal maestro e pennella un Gesù in una posa tenerissima, che sembra quasi esprimere l’addormentarsi del Figlio di Dio tra le braccia del Padre. Se accostiamo il Crocifisso di Cimabue a quello di Giotto, potremmo arrivare a dire che mentre, il maestro voleva rappresentare la croce come mistero di uno sconfinato dolore, Giotto ci vuole presentare la croce, secondo la visione di Luca e soprattutto di Giovanni – come mistero di un amore ancora più sconfinato.
Lo si vede anche dal particolare che nei suoi Crocifissi Giotto non dimentica mai: quello del fiotto di sangue e acqua che sgorga a spruzzo dal fianco del Trafitto. Il discepolo di Cimabue, che secondo Dante ha ‘oscurato’ il maestro, ha lasciato, a Rimini, questo meraviglioso capolavoro come segno e testimonianza della sua fede. Con il suo Crocifisso Giotto sembra quasi voler richiamare i credenti riminesi di ogni generazione a lasciarsi incantare dal grande amore con il quale il Padre ci ha amati, fino al punto da consegnare il Figlio suo alle nostre mani omicide.
Il Trafitto infatti è la memoria fissa della fede. Esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza: è qui che si scorge tutta la concretezza dell’umanità del Figlio di Dio, la sua umile e totale obbedienza al Padre, il suo amore giunto all’estremo limite. Il segno del sangue attesta la realtà dell’agnello offerto per la salvezza del mondo (Gv 6,51), e l’acqua, simbolo dello Spirito, la sua fecondità spirituale. Non senza fondamento, molti Padri hanno visto nell’acqua il simbolo del battesimo, nel sangue quello dell’eucaristia, e in questi due sacramenti il segno della Chiesa, nuova Eva che nasce dal fianco del nuovo Adamo (cf Ef 5,23-32).
Il Crocifisso dal cuore squarciato stasera ci parla e ci aiuta a leggere nel suo amore l’amore del Padre per la nostra povera umanità perduta. Con la sua obbedienza Gesù in croce ci rivela la più docile adesione alla volontà del Padre suo. La vera volontà del Padre non era quella dura e francamente inaccettabile esigenza di sacrificare il Figlio per le colpe di noi tutti. Una versione distorta, a lungo propinata da una riduttiva predicazione che ancora continua a segnare l’immaginario collettivo di molti cristiani. Piuttosto la volontà di Dio era quella di cui Gesù stesso aveva parlato: “Questa è la volontà del Padre mio, che io non perda nulla (e nessuno) di quanto mi ha dato” (Gv 6,39). Ecco perché Gesù ha preferito perdere se stesso pur di raggiungere tutti i figli di Dio che erano dispersi. Ecco perché ha preferito rispondere alla consegna del tradimento consegnando liberamente se stesso. Ecco perché di fronte al rinnegamento del primo tra i discepoli, non ha rinnegato l’originaria e definitiva alleanza sancita da Dio a favore dell’uomo. Ecco perché ha rifiutato qualsiasi manifestazione di forza, sia pure per difendersi. E così non ha mai affermato di sé – e di Dio Padre – nient’altro che una dedizione totale, senza riserve e senza rimpianti, senza lasciarsi vincere dal male dell’odio e della violenza, ma vincendo il male più grande con il bene di un amore ancora più grande (cf Rm 12,21). Si impone una prima domanda: c’è un amore più grande dell’amore del Figlio?
Ma la croce non è solo la vittoria dell’amore del Figlio. E’ anche la rivincita dell’amore del Padre. Infatti neppure il Padre ha inteso vendicare il Figlio e fargli giustizia. Meglio, la giustizia che egli rende al Figlio non consiste nel castigare i suoi carnefici, ma nel giusti-ficarli, ossia nel renderli giusti. Così si realizza la profezia: “Il giusto mio servo giustificherà molti” (Is 53,11). Ma restano ancora in sospeso un paio di domande: non si dice forse nella stessa profezia che “al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori” (Is 53,9)? Noi giustamente inorridiamo al pensiero di un Dio che “si compiace” di far soffrire il proprio Figlio e, in genere, qualsiasi creatura. Ci domandiamo ancora: che cosa precisamente è piaciuto al Padre? Non gli è piaciuto il dolore sofferto dal Figlio, ma l’amore da lui donato. Non della fine del Figlio si è compiaciuto, ma del fine da lui conseguito: la nostra salvezza.
Infine un’ultima domanda: c’è un amore più grande dell’amore del Padre?
Rimini, Basilica Cattedrale, Venerdì Santo, 14 aprile 2017 –
+Francesco Lambiasi