Omelia, basilica Cattedrale, s. Messa del giorno di Pasqua, 12 aprile 2009
1. Immaginiamo che nella Gerusalemme dei primi decenni dell’era cristiana ci fosse già la Tv, e che quella Domenica 7 aprile dell’anno 30 la notizia della risurrezione di Gesù di Nazaret fosse misteriosamente trapelata dalla cerchia dei suoi discepoli e venisse rilanciata da qualche agenzia di stampa. Ai titoli di testa di un TG, magari in edizione straordinaria, sarebbe bastata una sola parola per riassumere la strana notizia della scoperta della tomba vuota del Nazareno: “Risorto”, magari con un bel punto interrogativo.
In effetti è proprio di quella brevissima espressione – “è risorto” – che si sono serviti gli apostoli per incominciare a far fare a quella notizia scioccante il giro del mondo.
In quella parola si riassume tutta la vicenda di Gesù di Nazaret, nonché tutta l’avventura cristiana. Se è risorto, significa che era morto. Morto non certo di incidente o di malattia, ma di croce. E crocifisso, perché processato e condannato… Così, in flash-back, fino a ricostruire tutto il suo cammino, da Nazaret a Gerusalemme, dal Giordano al Calvario.
Ma c’è un’altra parola sintetica che permette di riassumere l’evento della risurrezione e l’intera vicenda di Gesù di Nazaret: non è un verbo, come “risorto”, ma un aggettivo, che ha la funzione di attributo di identificazione: Gesù è il Signore.
Ascoltiamo le prime testimonianze che ci provengono dal cristianesimo allo stato nascente.
Il giorno di Pentecoste, quindi esattamente cinquanta giorni dopo i fatti, Pietro conclude la sua predicazione di fronte ad una marea di oltre tremila persone con questa proclamazione solenne: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (At 2,36).
Ascoltiamo ora s. Paolo. Una venticinquina d’anni dopo i fatti scrive ai cristiani di Filippi, in Macedonia, e incastona nella lettera quel gioiello di inno a Cristo crocifisso ed esaltato. In quel cantico – che doveva risalire a diversi anni prima – dopo aver parlato dell’obbedienza di Cristo fino alla morte e morte di croce, si recita testualmente:
«Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore!”» (Fil 2,9-11).
2. La celebrazione odierna ci offre la felice occasione per riscoprire il senso e la portata del titolo – “Signore” – che è tra i più impiegati nel linguaggio cristiano. Basti pensare all’uso frequentissimo nella liturgia, ad esempio nella clausola di rito delle preghiere della Messa: “per Cristo nostro Signore”.
Ricordiamo quando Mosè si trova davanti al roveto ardente e ode per la prima volta quella voce cavernosa che gli grida di non avvicinarsi oltre. Alla supplica del povero Mosè rivolta a Dio di rivelargli il nome, il Dio dei padri risponde: “Io-Sono: questo è il mio nome per sempre”. E’ la rivelazione del cosiddetto “tetragramma sacro: IHWH”, che gli ebrei in segno di rispetto non si permettevano mai di pronunciare e che sostituivano con il titolo Adonai, tradotto poi in greco con Kyrios, a sua volta tradotto in latino con Dominus, e in italiano Signore. Pertanto se “Signore” è il nome proprio di Dio, dire che Gesù è “Signore” significa riconoscergli una identità di natura divina.
Ma questo è appunto quanto avviene a seguito delle primissime esperienze pasquali. E’ da allora che il titolo comincia ad essere attribuito a Gesù incontrato e creduto come “risorto”.
A questo punto non resta che domandarci: cosa implica nella nostra vita professare la fede in Gesù Cristo come “Signore”? La risposta più esauriente ci viene dai martiri. Nel momento in cui i martiri andavano incontro al supplizio, e veniva loro riconosciuto l’ultimo diritto, quello di parola, gridavano forte: “Cristo è il Signore”. Volevano dire: non è Caligola o Nerone il “Signore”, il dio in terra, ma è Gesù Cristo: è lui e solo lui che ogni lingua deve proclamare come Signore; è lui e solo lui davanti al quale si deve piegare in adorazione ogni ginocchio.
Riconoscere Cristo come l’unico Signore del cielo e della terra, significa che è il Signore di tutto, a cominciare dalla mia vita: è lui e solo lui il mio vero ed unico Signore. San Paolo, nella lettera ai Romani scrive:
«Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,7-8).
Ormai la contraddizione per i cristiani non è più tra la vita e la morte, ma tra il vivere per il Signore e il vivere per se stessi. Vivere per se stessi è il nuovo nome della morte.
3. E oggi cosa significa non vivere per se stessi, ma per il Signore?
Per essere testimoni credibili e convincenti del Risorto, non basta essere persone che vivono in modo onesto, e si richiede da parte dei cristiani molto di più che un comportamento “equo e solidale”. Occorre un amore capace di vincere ogni giorno la forza di gravità del proprio egoismo.
Occorrono preti e catechisti che non si limitino a parlare di Dio, ma diventino persone in cui Dio si racconta. Non ci bastano degli operatori pastorali, occupati nelle cose di Chiesa; ci occorrono dei cristiani innamorati del loro Maestro e Signore.
Occorrono sposi che non si accontentino di non tradirsi, ma che puntino su una gratuità totale al punto da potersi dire in verità, non: «Ti amo perché ho bisogno di te, ma ho bisogno di te perché ti amo».
Occorrono politici che non solo non pensino ai loro affari di bottega, ma si preoccupino innanzitutto del bene comune; che non si limitino a garantire i diritti, ma che pensino ai bisogni della gente; che non si impegnino solo per la sicurezza di alcuni, ma si spendano per la solidarietà verso i più poveri.
Occorrono economisti e finanzieri capaci di mostrare che con la fede i nostri figli non saranno mai poveri; senza la fede non saranno mai veramente ricchi.
In una parola non ci bastano degli uomini buoni; ci occorrono degli uomini nuovi, dei veri “inviati speciali”, capaci di parlare la lingua madre del vangelo con parole di vita; per questo non basta che vivano per Cristo, ma è indispensabile che vivano come Cristo: a mani aperte, a braccia spalancate.