Omelia pronunciata in Basilica Cattedrale nella S. Messa del Giorno di Natale – Rimini, 25 dicembre 2009
In una sconvolgente “notte di fuoco” – era il 23 novembre 1654 – Blaise Pascal, scienziato e filosofo del Seicento francese, scrisse un Memoriale che portò cucito sotto la giubba allora detta giustacuore. In quello scritto egli attestava un’esperienza quasi estatica che gli fece scoprire finalmente l’identità cristiana di Dio: “Fuoco. Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo…”. In queste parole, percorse da uno stupore rapito, si coglie in sintesi tutta la rivelazione dell’AT e del NT. Il Dio della rivelazione biblica non è come gli idoli muti che hanno bocca ma non parlano. Il Dio di Israele è un Dio di uomini, ai quali egli si rivolge come ad amici. E’ un Dio che non può stare solo, non perché soffra di solitudine o gli manchi qualcosa, ma perché è amore e, se il fuoco non può non bruciare, può forse l’Amore non amare? E che amore sarebbe se non comunicasse con la persona amata?
1. Ma come fa Dio a comunicare con gli uomini? Il poema del Verbo fatto carne, quale abbiamo riascoltato dal prologo del IV vangelo, ci presenta l’economia della salvezza in tre tappe. La creazione costituisce una prima manifestazione di Dio: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. Poiché il mondo è stato fatto per mezzo del Verbo, il mondo, in quanto “detto” da Dio, manifesta la presenza e le perfezioni invisibili del dio che parla: la sua sapienza, la sua onnipotenza, la sua bontà. Ma, in pratica, l’uomo è rimasto sordo al messaggio della creazione. Questa prima manifestazione di dio è stata un insuccesso: “Il mondo è stato fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo ha riconosciuto”.
Allora Dio si è scelto un popolo e si è manifestato a Israele per mezzo dei profeti. Infatti, se per rivelarsi, Dio avesse parlato la lingua degli angeli, gli umani non avrebbero potuto capirlo. I profeti invece hanno fatto da interpreti tra Dio e il popolo. Ma anche questo tentativo, come il primo, si è concluso in modo fallimentare: “Venne fra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto”. Ecco allora la rivelazione definitiva: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (2.a lettura). Infatti “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio, è lui che lo ha rivelato”. Così la rivelazione si compie: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,18). Ormai Dio ha definitivamente superato la barriera del silenzio. Se nell’AT Dio ha parlato agli uomini per mezzo di uomini, con l’incarnazione del Verbo ci ha parlato attraverso il Figlio fatto uomo.
2. Ma chi è nella sua più profonda identità questo Verbo-fatto-carne? Venti secoli di dibattito su Cristo hanno registrato rischi in un senso o in quello opposto: sottolineare troppo la sua divinità a scapito della sua autenticità umana, oppure rimarcare la sua umanità facendo scivolare in ombra la sua divinità. Secondo la fede della Chiesa, tre sono gli inconfondibili “segni di riconoscimento” della sua carta di identità.
Il primo è quello della sua umanità. L’incarnazione va presa sul serio: facendosi uomo, Gesù è stato “messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato” (Ebr. 4,15). Il Bambino che giace nella mangiatoia, conoscerà compassione per i malati e misericordia per i traviati, sentirà rabbia di fronte all’impermeabile ostinazione dei farisei, proverà tenerezza per i bambini, sperimenterà angoscia e terrore di fronte alla morte.
Non prendere sul serio queste pagine evangeliche significa ridurre Gesù ad un super-man o ad un attore divino che gioca a recitare la parte dell’uomo senza assumere realmente, sensibilmente, corporalmente tutta la drammatica fragilità della carne umana. Al posto di un Dio vivente fatto uomo, ci ritroveremmo fatalmente tra le mani un’idea evanescente di Dio fatta dall’uomo.
3. Proviamo ora ad esplorare la seconda dimensione della persona di Gesù, la divinità, che è, in un certo senso, come l’altezza della sua figura.
Dire che Gesù di Nazaret è realmente e integralmente uomo non può portare a ridurre Cristo a solo uomo, per quanto straordinario. Chi nega che egli sia anche vero Dio e contemporaneamente lo ammira e lo esalta come il più umano degli uomini, il maestro più buono e più grande nel donarsi, il profeta dei profeti della fratellanza universale, cade nell’abbaglio più tragico che la storia abbia mai conosciuto: perché Gesù ha preteso di essere il Figlio di Dio in persona, e dunque o sono vere le sue parole, o hanno fatto bene i soldati del pretorio a deriderlo come pazzo, e le autorità ebraiche e romane a farlo fuori.
Gesù ha accampato delle pretese straordinarie, umanamente esorbitanti. Ha manifestato, tramite il suo agire, di essere il Salvatore. Ebbe col Padre una relazione unica, filiale. Gesù parla spesso di Dio come Padre, ma non si pone di fronte a lui come uno dei tanti figli, bensì come il Figlio. Egli è cosciente di essere mediatore di una nuova relazione con Dio proprio perché si trova in un rapporto unico con lui: “Il Padre ha messo tutto nelle mie mani. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre. E nessuno conosce il Padre se non il Figlio e quelli ai quali il Figlio lo fa conoscere” (Mt 11,27).
Dobbiamo lasciarci interpellare da Gesù: Egli agisce e parla in modo tale da provocare una scelta, quella della fede in lui. Il suo modo troppo familiare di parlare con Dio, il suo modo troppo sicuro di parlare di Dio, il suo modo troppo pretenzioso di parlare al posto di Dio, rivelano la coscienza di un’unità con il Padre, che soltanto la fede può credere: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,15-16).
4. La terza dimensione della figura di Cristo è l’essenziale unità delle due dimensioni precedenti, l’umana e la divina. Coordinando queste due grandezze, la fede della Chiesa non ritiene che l’una debba escludere l’altra: Gesù non ha avuto bisogno di essere meno uomo per essere vero Dio, né di essere meno Dio per essere vero uomo. Se non fosse insieme “veramente e perfettamente uomo, veramente e perfettamente Dio”, noi cristiani saremmo i più sciocchi tra gli uomini, perché giocheremmo la nostra vita su una carta sbagliata in partenza: quella dello sdoppiamento tra uno che, essendo Dio, possiede la soluzione del nostro dramma ma non potrebbe comunicarcela, in quanto non sarebbe al nostro livello; e uno che, sì, sarebbe al nostro livello, ma non potrebbe salvarci essendo soltanto in tutto e per tutto un uomo come noi.
Dunque la formula per avvicinarci al mistero della Parola fatta carne non è umanità più divinità, ma divinità nell’umanità. Contemplando l’eccedenza e la totale gratuità dell’amore di Cristo quale già traspare nella mangiatoia e quale si rivelerà in pienezza nel gesto supremo della croce (“Nessuno ha un amore più grande di questo”), la fede ci porta a concludere: umano così può essere solo Dio!
Per questo Gesù non potrà mai essere affiancato a Buddha, a Confucio o a Maometto: solo in Cristo tutto è stato fatto; solo Cristo è la luce del mondo; solo Cristo è la vita degli uomini. Solo Gesù Cristo è il Salvatore del mondo. Infatti “non vi è altro nome sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).
Ma da qui discende un’altra conseguenza: se il cristianesimo non è primariamente una dottrina, ma una persona, Gesù Cristo, ne consegue che l’incontro con lui è l’avvenimento più importante nella vita, è l’evento più decisivo della storia.
“Sappiamo che la vita e la salvezza dalla disperazione, la garanzia per l’intero universo si racchiudono nelle parole: Il Verbo si è fatto carne” (Dostoevskij).
Il Dio che si è fatto uno di noi, attende di diventare ognuno di noi. E’ quanto questo esprime il seguente messaggio:
Perché sono nato?
Sono nato nudo, dice Dio, perché tu sappia spogliarti di te stesso.
Sono nato povero, perché tu possa considerarmi l’unica tua ricchezza.
Sono nato debole, dice Dio, perché tu non abbia mai paura di me.
Sono nato di notte, perché tu creda che io possa illuminare la tua notte.
Sono nato perseguitato, perché tu possa affrontare ogni prova e difficoltà.
Sono nato semplice, dice Dio, perché tu la smetta di fare il complicato.
Sono nato uomo, perché tu possa diventare Dio.
+ Francesco Lambiasi