Omelia per l’ordinazione diaconale di Massimo Renzi e Claudio Giani
Chi è il diacono? Un personaggio che compare nelle celebrazioni liturgiche, vestito del suo bianco camice e di una stola portata trasversalmente? Uno che, poi, fuori di chiesa – nella maggioranza dei casi – si mostra accompagnato da moglie e figli? Uno che, lungo la settimana, va in ufficio o in fabbrica, là dove la sua professione lo conduce? Insomma il diacono non appartiene forse a una strana specie ecclesiastica di sotto-preti o di super-laici?
1. Se proviamo a interrogare il vangelo di oggi, a prima vista sembra che non ce ne venga neppure una scintilla di luce per rispondere a questo grappolo di domande. Invece, a pensarci bene, la guarigione del cieco di Gerico, ci aiuta a fissare l’elemento-base per delineare il profilo teologico, spirituale e pastorale del diacono. Come Bartimeo, anche lui è un discepolo di Gesù. E’ uno che lo ha incontrato, o meglio, si è lasciato incontrare da lui. Si è lasciato illuminare dalla sua luce e finalmente ha aperto gli occhi. E’ ‘venuto alla luce’ e si è messo a seguirlo. Se non ritagliamo il brano odierno dal suo contesto originario riducendolo a un ‘medaglione’; se non lo chiudiamo nella sua nuda cornice letteraria, allora notiamo che nel versetto immediatamente precedente l’inizio di questo brano, Gesù si è appena definito come “venuto non per farsi servire (“diakonethenai”), ma per “servire” (“diakonesai”) (cf Mc 10,45). Troviamo qui due verbi che hanno la stessa radice da cui deriva “diacono”. Pertanto, è indispensabile fissare con precisione l’elemento-base per l’identità del diacono, per cogliere il suo ‘specifico’. Altrimenti proprio questo ‘specifico’ rischia di risultare appannato e fatalmente scolorito. In fondo nella carta di identità del diacono, discepolo è il sostantivo e diacono è l’aggettivo. Pretendere di voler definire il diacono senza prendere in seria considerazione la dimensione battesimale, comune a tutto il popolo di Dio, sarebbe come illudersi di staccare il masso roccioso della vetta di una montagna e pretendere che rimanga sospeso in aria, troncandolo dall’alta, colossale mole della montagna stessa.
Ora è vero che nella Chiesa di Gesù c’è una corresponsabilità battesimale che ci fa tutti chiamati e abilitati a servire – è la diaconia diffusa – ma è vero pure che nella Chiesa vige una collaborazione ministeriale di alcuni, che sono chiamati ad assumere una funzione particolare al servizio della Chiesa e della sua missione. Tra quanti sono incaricati dei vari ministeri, ci sono in posizione rilevante i ministri ordinati: episcopi, presbiteri e diaconi. Si tratta della ‘struttura’ fondamentale della Chiesa. E’ come il ‘sistema osseo’ dell’organismo ecclesiale. Non ci è fatto obbligo di amare le strutture, ma se crediamo che vengano dalla esuberante fantasia dello Spirito Santo, allora siamo chiamati a lasciarcene guidare, sostenere, edificare. Ricordando che “senza i diaconi, non si può parlare di Chiesa” (s. Ignazio Ant., Ai cristiani di Tralle). Comunque, come il ministero ordinato non confisca tutta la realtà ministeriale della Chiesa, così la diaconia dei diaconi non ‘sequestra’ l’intera vocazione diaconale di tutta la Chiesa. Infatti i diaconi sono ordinati “non per il sacerdozio, ma per servire” (LG 29) sia nella predicazione che nella liturgia e nella pastorale della carità. Al di là delle attività concrete, la loro stessa presenza è un dono, in quanto promuove la vocazione a servire, comune a tutto il popolo di Dio.
Questa ‘carta di identità’ implica varie conseguenze. Ne spunto due. Anzitutto va evidenziato il carattere ‘connettivo’ del ministero diaconale. I diaconi fanno da ponte tra la Chiesa e la società in mezzo alla quale vive la comunità cristiana. In un certo senso svolgono un ruolo di interfaccia, e si collocano sulla ‘soglia’, all’incrocio fra Chiesa e storia. Inoltre va rimarcato il carattere ausiliario che riveste il diaconato: i diaconi aiutano il vescovo e i presbiteri a “far progredire il popolo cristiano” (Pont.. rom. n. 200), a farlo avanzare sulla strada del regno, come i catalizzatori della diaconia di tutti, nel senso che non la creano, ma contribuiscono alla sua ‘accelerazione’ perché il popolo di Dio sia un popolo di servi, con la passione e il gusto del servizio.
2. Qual è allora la spiritualità del diacono? Non può che essere la spiritualità del servizio, caratterizzata da tre parole con la g Gratitudine è la prima parola. In effetti senza il profumo della gratitudine il servizio si riduce a servitù e fa percepire solo l’odore greve del sudore dei nostri sforzi e delle nostre spossanti fatiche. Assillati continuamente dal da farsi, con l’agenda carica di appuntamenti, convinti (o illusi?) che il futuro è nostra costruzione, si rischia di smarrire la memoria del fatto che la gratitudine è dono che viene dall’alto, nel quale, pur con tante difficoltà arcinote, siamo continuamente immersi. Infatti, se tutto è dono, lo è anche il servizio, che perciò va ricevuto e custodito in ‘rendimento di grazie’. E va vissuto con gratitudine, uno stile che fa parte del nostro codice genetico di discepoli, che non si stancano di servire perché si sanno e si sentono teneramente, tenacemente amati. Senza il senso del dono è facile scadere nello sconforto, diventare devoti della dea ‘lamentela’, precipitare in un pessimismo acido e infecondo.
La gratitudine poi è la madre della gratuità. Ecco la seconda parola: gratuità. Siamo e dobbiamo sentirci sempre come “servi in-utili”. Non certo servi che non servono a niente di utile, ma che non cercano l’utile proprio. Insomma, solo e semplicemente servi. Che non spasimano per lo scatto di carriera, per l’aumento della busta-paga. Non ambiscono trofei, medaglie e poltrone. Servono e basta, senza pretese e senza proteste. Non si entra a servizio del Vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga. Non servono a contratto: io do tanto in servizio e la Chiesa mi deve tanto in premio. Una gratuità rivestita del camice dell’umiltà, che sa imparare da altri che fanno meglio di noi. Una gratuità che sul camice del servizio indossa il grembiule della disponibilità, per lavare i piedi ai poveri, non per farceli lavare dai poveri.
Gesù servo inoltre promette: “Nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22). E’ la terza g. Ma qui sembra opportuno sgomberare subito il campo da un equivoco. Non sempre la gioia confina con l’appagamento sensibile. Non sempre coincide con la sensazione psicologica di benessere. Non sempre è appannaggio di chi ha il sorriso facile e l’inclinazione a un frizzante ottimismo. La gioia evangelica è il frutto saporoso e immancabile di una vita spesa nel servizio umile, fedele, generoso. E’ la gioia di servire alla gioia altrui.
Oggi la testimonianza più franca e leggibile di una vita realizzata, che un diacono può rendere all’evangelizzazione – in casa, al lavoro, nella salute e nella malattia, nel successo e nella prova – è quella della gioia. Che ogni sera voi, cari diaconi, possiate cantare con Maria, la serva del Signore: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio Spirito esulta in Dio mio Salvatore”.
Fino all’ultima sera della vostra vita…
Rimini, Basilica Cattedrale, 28 ottobre 2018
+ Francesco Lambiasi