Non farisei impettiti
Omelia in occasione dell’ordinazione diaconale di Alessandro Pironi
1. “Dio non fa preferenza di persone”. E’ una dichiarazione solenne, che ci è stata consegnata dal Siracide (35,15b). Si tratta in verità di un ‘motivo’ che attraversa la melodia dell’intera sacra Scrittura. Lo si ritrova ben 12 volte, di cui 5 nell’AT e 7 nel Nuovo.
Nell’Antico ricorre in contesti giudiziari o forensi, dove si allude al Dio giudice. Sta a significare che Dio non si lascia corrompere da regali o regalie. Non si fa intimorire da potenti e prepotenti. Non si fa influenzare da imponenze e appariscenze. Non si lascia condizionare da pregiudizi o favoritismi. Ma usa un metro oggettivo e assolutamente imparziale: giudica ciascuno secondo le proprie opere. E pesa tutto e tutti con le sue bilance non truccate, anzi esatte, perfette.
Nel NT l’espressione “Dio non fa preferenze” ricorre in contesti positivi, in cui si parla del Dio salvatore. Significa che Dio vuole salvare tutti, perché ama davvero tutti. Dio è Padre di ciascuno di noi, e ci ama senza ricorrere a preferenze arbitrarie. Senza mai concedere ingiusti privilegi. Senza mai permettersi ingiustificate parzialità. Dio non guarda a presunti meriti o demeriti. Non usa due pesi e due misure. Non distribuisce a casaccio premi e castighi. Non si lascia condizionare dal colore della pelle, dal grado sociale, dal potere economico o politico. Di fronte a lui non c’è né giudeo né greco, né schiavo né padrone, né maschio né femmina (cfr Gal 3,28).
Eppure questo Dio giudice e salvatore non è indifferente alle differenze: Non “fa parti uguali tra disuguali” (Don Milani). Non emargina nessuno. Non tratta alcuni da figli, altri da figliastri. Non discrimina nessuno. Ci preferisce tutti.
- 2. Ma allora perché giustifica ed esalta il pubblicano, e invece umilia e censura il fariseo?
Dobbiamo ricordare la rispettiva ‘carta d’identità’ di un fariseo e di un pubblicano. Quando pensiamo ai farisei, scatta automaticamente nella nostra immaginazione, come loro tratto distintivo, l’ipocrisia. Sarebbero quindi quelli dalla ‘doppia vita’: “dicono e non fanno”, come riconosce lo stesso Gesù (cfr Mt 23,3). In verità l’ipocrisia dei farisei è più un sintomo che la causa della loro penosa patologia. La causa vera e propria sembra sia da individuarsi nella diagnosi stilata da Gesù all’inizio della nostra parabola: i farisei “avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9)
Proviamo a riprendere il selfie del fariseo al tempio. E’ dritto, in piedi, piazzato in prima fila. Già la postura fotografa un tipo impettito, imperterrito, accanito nel credersi a posto con Dio. E’ vero che comincia la sua preghiera ‘ringraziando’ Dio. Questo verbo – eucharistò – ha un innegabile suono ’eucaristico’. In verità si tratta di una ‘eucaristia’ deviata, inquinata da una perversione diabolica. Il fariseo “prega tra sé”, come a dire che rimane ermeticamente chiuso nella bolla del proprio impenetrabile Io. E ringrazia Dio, ma non certo per il bene ricevuto dall’alto, bensì per il bene da lui stesso prodotto. Millanta credito e tratta Dio da ‘bancomat’. Però in fondo dice la verità. In effetti è vero: lui digiuna scrupolosamente due volte a settimana, e paga meticolosamente la decima dei suoi beni.
Quindi va ben al di là dello stretto dovuto. Di per sé la legge mosaica prevedeva il digiuno una sola volta all’anno, nello Yom kippùr. E imponeva il pagamento della decima da parte del rivenditore di generi alimentari e non dell’acquirente. Il guaio è che il fariseo ne trae motivo per sentirsi in credito con Dio. Questo signore che si ritiene tanto rispettabile, osa sbattere in faccia a Dio la lista dei suoi presunti meriti e si permette di chiedere il corrispettivo del suo ‘onorario’. Fa venire in mente le parole sfrontate del figlio maggiore nella parabola del padre misericordioso: “Io sono tanti anni che ti servo e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu (padre) non mi hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici” (Lc 15,29).
Il pubblicano invece appartiene alla categoria degli odiati esattori delle tasse. Quei ladri matricolati, quei peccatori incalliti, che venivano schivati e schifati da tutti. Anche lui è salito al tempio per pregare. Anche lui assume una posizione e una postura che esprime a pelle l’atteggiamento del cuore. Si ferma a distanza, non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo, si batte il petto e formula un preghiera umile e accorata: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Come si vede, la preghiera fa da specchio alla vita dell’uno e dell’altro. Possiamo perciò concludere: Dimmi come preghi e ti dirò chi sei. Dimmi come preghi e ti dirò che cristiano sei. In questa occasione del conferimento del diaconato al nostro Alessandro, mi viene da dire: Dimmi come preghi e ti dirò che diacono sei.
3. Passiamo perciò a declinare rapidamente la prima diaconia che sta per esserti affidata, carissimo, per vederla nel rapporto ‘preghiera – vita’. E’ la diaconia del Vangelo.
E poiché, come sai bene “la legge della preghiera è legge di vita – lex orandi, lex vivendi”, a nome di tutta la comunità, prego lo Spirito santo perché tu creda ciò che proclami e viva ciò che credi, come ti dirò tra poco nel consegnarti il libro dei santi vangeli. Ciò che proclamerai sarà sempre il Vangelo dei vangeli: “Cristo è risorto”. Con la sua stupefacente conseguenza, che anche noi siamo già risorti: “siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli” (1Gv 3,14).
Ora senti qual è la conseguenza imprescindibile che ne tira san Gregorio Magno: “Non deve assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri”. Un vero diacono non avrà carità verso gli altri – e quindi non sarà un diacono… risorto – se si lascia contagiare da alcuni virus antievangelici. Tipo, il vittimismo, di chi brontola: “Tocca sempre a me”. Tipo, il clericalismo, di chi mugugna: “Né una medaglia al merito e alla fine neanche un grazie”.
Ora permettimi un ultimo augurio. Personalmente credo che i diaconi non si possano dividere tra transeunti e permanenti. Con questa ordinazione, tu non diventerai mica un ‘diacono a termine’, ma lo rimarrai per tutta la tua vita, anche da prete. Piuttosto ritengo che i diaconi – come anche i preti e i vescovi (!) – non si possano dividere neanche tra santi e peccatori, ma tra diaconi contenti e diaconi scontenti. Pertanto ti auguro di essere e di rimanere un diacono permanentemente contento. Ciò si verificherà se ogni giorno si compirà per te la parola che mi hai condiviso nella tua ultima lettera: “Quando lascio a Dio di essermi Padre, mi sento figlio amato!”.
Rimini, Basilica Cattedrale, 27 ottobre 2019
+ Francesco Lambiasi