Omelia tenuta dal Vescovo nel corso dell’ordinazione diaconale di Antonio Giustini, Massimiliano Zamagni e Daniele Missiroli Cattedrale di Rimini, 3 ottobre 2010
Cade giusto a proposito l’ultima parola del Signore Gesù, che ci è stata appena proclamata nel santo vangelo. Riascoltiamola con attenzione: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Ma per quanto si inserisca a pennello nella solenne, commovente cornice della vostra ordinazione diaconale – carissimi Daniele, Antonio e Massimiliano – non per questo la parola del vangelo ci giunge meno provocatoria, se non addirittura irritante.
1. In verità il breve paragone del ricco proprietario terriero, che spreme senza tanti complimenti il suo servo, ci contagia quella sensazione sgradevole, che inevitabilmente si prova di fronte all’antipatico ritratto di un boss arcigno e intrattabile. Viene da chiedersi: ma Dio rassomiglia davvero a certi padroni fiscali e incontentabili che stanno lì sempre pronti a ordinare e a pretendere, e non danno un attimo di pace ai loro servitori? Non è questa la prospettiva del paragone sconcertante, pennellato a tinte grosse da Gesù. L’obiettivo di questo insegnamento quanto mai inedito e paradossale del Maestro di Nazaret non è di rivelarci il comportamento di Dio verso l’uomo. Tale comportamento infatti risulta già del tutto trasparente nello “stile” dello stesso Gesù, il quale è venuto a servire e non a farsi servire (Lc 12,32). Ed è venuto a vivere una vita simile a quella del cameriere, sempre pronto a scattare agli ordini del signor padrone, che invece se ne sta beatamente seduto a mensa, anzi adagiato placidamente su un confortevole divano, secondo il noto costume orientale (Lc 22,27). La piccola parabola del padrone dai modi bruschi, sgradevoli, se non urticanti, che comanda puntigliosamente a bacchetta, e del servo puntuale e ossequiente, che obbedisce a un solo battito di ciglia del suo signore – mi permetto di ripetere – non vuole descrivere il comportamento di Dio verso l’uomo. Vuole piuttosto rappresentare il comportamento dell’uomo verso Dio, che dovrebbe essere di totale disponibilità al suo benevolo volere, una disponibilità senza pretese e senza riserve, senza calcoli e a “interessi zero”.
Ma torniamo a quella parola dal suono stridente e dal tenore brutale: “Siamo servi inutili”. Se si fa una rapida ricerca sinottica sulle varie traduzioni del passo, anche in Bibbie in altre lingue, si nota che l’espressione viene resa con “siamo dei semplici servi”, o “siamo dei poveri servi”, o ancora “siamo soltanto servi”. In alternativa, quando viene tradotto letteralmente con la resa tradizionale – “siamo servi inutili” – il nostro passo viene spiegato a piè di pagina con una nota del tipo: questo aggettivo “inutili” è “la traduzione letterale (e tradizionale) del termine greco, ma pare adattarsi molto male al contesto” (così nella vecchia Bibbia di Gerusalemme). In realtà il contesto mostra chiaramente che, nonostante tutto, il servitore non è niente affatto inutile, e comunque l’espressione – che pure è e resta eccessiva – si adatta perfettamente ai discepoli: nessuno è indispensabile al servizio del Signore. Difatti in italiano l’aggettivo inutile significa buono a nulla, che non serve a niente, incapace, superfluo, di cui si può fare a meno. Ma non è questo il senso della parola originaria: in-utile significa letteralmente senza-utile, cioè senza guadagno.
Infatti i discepoli del Signore prestano il loro servizio non come dei soldati così chiamati appunto perché riscuotono il soldo, o dei mercenari che si vendono per una pingue mercede, o dei salariati che si aspettano la busta-paga a fine mese. I discepoli sono servi che prestano la loro opera senza rivendicazioni amare o acide recriminazioni, e senza secondi fini. Non mirano a ricompense, a gratifiche lusinghiere o a esaltanti successi. Non agiscono per il miraggio di lauti guadagni o di brillanti carriere. Non sono degli accaniti rampanti. Non vogliono altro che servire, e servire gratis: umilmente e disinteressatamente.
2. Ecco il tratto obbligato della vostra carta di identità, carissimi diaconi: gratuità. Stampate questa parola luminosa in testa ad ogni capitolo del vostro ministero, scrivetela in ogni pagina delle vostre giornate, declinatela in ogni riga dei vostri molteplici servizi, e sarete beati. Non fate mai da padroni della fede dei fratelli, mettetevi a disposizione della loro gioia, e conoscerete la perfetta letizia.
Questo pensiero della perfetta letizia merita di essere ripreso. Siamo ormai ai primi vespri della festa di s. Francesco d’Assisi. Come oggi, il 3 ottobre di quel lontano 1226, in uno dei tramonti più dolci della storia, frate Francesco, dopo essersi fatto deporre nudo sulla nuda terra – perché “al suo corpo non volle altra bara” (Dante) – l’umile servo dell’altissimo, onnipotente e bon Signore si lasciava abbracciare da “sora nostra morte corporale” e rendeva la sua giovane vita a Dio. Gli storici non sono del tutto sicuri e concordi nel ritenere Francesco come un diacono della santa Chiesa, ma Giotto lo raffigura con la dalmatica e noi pure così, questa sera, lo vogliamo contemplare. Pensando al diacono s. Francesco e al celebre fioretto sulla perfetta letizia, permettetemi di indirizzarmi ad ognuno di voi tre – carissimi Antonio, Massimiliano e Daniele – e lasciatemi tradurre per voi, adattandole, le parole di s. Francesco a frate Leone.
“Frate” diacono, quando non avrai trattenuto nulla per te, nella sciocca presunzione di essere proprietario di qualche bene; quando avrai servito il Signore e avrai speso nel servizio suo e degli altri tutte le forze, le doti e le risorse ricevute in dono; quando non faticherai troppo a vederti ridotto nella passività; quando, dopo aver dato tutto, non ti ritroverai nell’abbigliamento del V.I.P. ma con il grembiule del servo che ha fatto solo e tutto quello che doveva fare… allora scrivi: quivi è perfetta letizia.
Fratello diacono, quando non ti sarai messo alla sequela di Cristo per realizzare un tuo progetto, e sarai talmente disponibile da non avere più tempo per pensare ai tuoi progetti; quando ti sarai messo totalmente a disposizione per la sua causa e non sarai più tentato di strumentalizzare Lui per la tua causa; quando non punterai più ad asservire i molti per te, ma ad asservire te stesso per i molti… allora siediti e scrivi: quivi è perfetta letizia.
Fratello diacono, se non ti approprierai dei frutti del tuo lavoro, perché altrimenti li ruberesti a Dio; se lavorerai unicamente perché il pensiero di Dio, la parola di Dio, l’azione di Dio, la potenza di Dio operino attraverso di te, umile e docile strumento della sua grazia; quando non ti sentirai più né indispensabile né insostituibile, e accetterai ogni incarico non come un merito o un premio, ma come un dono e solamente, semplicemente come una chiamata a servire… allora scrivi: quivi è perfetta letizia.
Permettetemi in conclusione, carissimi, di girarvi un testo, a me molto caro, che può aiutare a fare sintesi dei pensieri che ho provato a comunicarvi. E’ il “testamento spirituale”, trovato dopo la sua morte, tra alcune poesie del nostro indimenticabile padre spirituale nel seminario regionale di Anagni: “Tu l’hai letto, o Signore, tra le pieghe del mio spirito / il mio ultimo sogno: / morire in silenzio, uscire dal mondo, in punta di piedi!
E’ un sussurro d’un cuore sereno, che canta sommesso tra i molti fragori d’un mondo in subbuglio. / E’ un profumo di fiore nascosto che accarezza i gelidi venti dei miei mesi invernali.
Vorrei uscire dal mondo, come una larva di servizio, che da una sala di convito / quando tutti sono allegri / chiamata altrove / s’eclissa, frettolosa, inosservata, silenziosa…
Vorrei uscire dal mondo, come una figura amica, che da una stanza d’ospedale / quando tutti sono assopiti / finito il suo turno / scompare, senza saluti, senza sorrisi, in punta di piedi” (Mario Rosin, S.J.).
Che Maria, l’umile serva del Signore, la dolcissima madre di noi poveri servi, accolga l’offerta della vostra diakonia, la metta nelle mani del suo Figlio Gesù, e ve la restituisca trasfigurata nella vita del Servo dei servi del Signore, intessuta di umile limpida gratuità, profumata di gioia e di perfetta letizia.
+ Francesco Lambiasi