Omelia tenuta dal Vescovo durante la celebrazione per il centenario della presenza in Rimini delle Suore di Maria Bambina
Bastano due parole per esplorare il mondo interiore dei discepoli di Gesù, al tramonto di quel “primo giorno della settimana”. Due parole, soltanto: paura e gioia. Gesù Risorto appare ai suoi, rinchiusi a doppia mandata nel cenacolo “per paura dei Giudei”, e offre loro il regalo di Pasqua: la pace. Ma gli Undici piombano in uno spavento ancora più sbigottito: “sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma” (Lc 24, 39).
1. Per aiutare i suoi a superare il trauma causato dall’apparizione inaspettata e scioccante, Gesù mostra i segni della passione: mani piagate e piedi forati. Ma, paradossalmente, la matassa dei sentimenti che si mescolano nel cuore dei discepoli si aggroviglia ancora di più: “per la gioia non credevano ancora”. Come è possibile che la gioia si accompagni con il dubbio e la paura? E’ possibile solo se il seme della fede non fiorisce in pieno rigoglio e il calore del vangelo non prosciuga tutte le sacche di sgomento che ancora stagnano nei crepacci del cuore. Per questo Gesù non sciorina miracoli strabilianti, ma compie il gesto più umano e quotidiano: si mette mangiare in mezzo agli Undici. Come aveva fatto poco prima ad Emmaus. Come farà prima di tornare al cielo. Gesù vuole farsi capire: non è una idea evanescente, né un fantasma inafferrabile e inquietante. Gesù vuole farci capire che non è uno spirito che svolazza tra le nuvole. Sta con la carne e le ossa del suo corpo risorto dentro la fragilità, il dubbio, il dolore, il tradimento. Sta lì per sanare ferite, perdonare peccati e condividere debolezze. Ed è lì, proprio lì che vuole anche noi. Per questo ci affida il mandato: “Sarete miei testimoni”.
2. Ma chi è il testimone? è uno che ha visto, che ricorda e racconta. Vedere, ricordare e raccontare sono i tre verbi, che ne precisano il profilo e ne configurano il comportamento. Il testimone è uno che ha visto, ma non ha guardato da una postazione neutra né con occhio impassibile e distaccato. Ha visto con sguardo libero e disponibile, e si è lasciato sconvolgere e intensamente coinvolgere dall’accaduto. E perciò ricorda, non tanto perché sa ricostruire per filo e per segno la successione materiale dei fatti nudi e crudi, ma perché quei fatti gli hanno parlato, e lui ne ha colto la polpa del senso sotto la dura corteccia dell’evento. Pertanto il testimone non racconta, come un foto-reporter, magari in modo chiaro e distinto ma freddo e distante, quanto piuttosto come uno che si è lasciato mettere in questione, e da quel giorno ha deciso di cambiare vita. Il testimone racconta prendendo posizione e compromettendosi; parla non in modo spento e ripetiticcio, ma “facendo vedere”, anche a chi non ha visto, quello che i suoi occhi hanno contemplato e le sue mani hanno palpato. Il testimone non dimostra un teorema o una teoria; mostra una storia, facendo cogliere la differenza che in essa è stata prodotta dall’evento testimoniato.
3. L’oggetto o contenuto della testimonianza cristiana non è un complesso sistema di pensiero né un ingarbugliato codice di precetti e divieti, ma un messaggio di salvezza, un evento puntuale e tangibile. E’ una persona, il Cristo risorto e vivente. Se non è un freddo concetto, l’oggetto della testimonianza è in realtà un soggetto: Gesù, Messia crocifisso e unico Salvatore di tutti. Questo soggetto umano-divino può essere testimoniato solo da cristiani che hanno fatto personalmente l’esperienza della salvezza. Insomma tu, fratello, sorella, puoi testimoniare che Cristo è risorto e vivente, solo se è risorto in te ed è vivente nella tua vita concreta, particolare e specifica. Quando sperimenti la sua presenza e la sua consolazione; quando ti dà la forza di ricominciare, di donare e di perdonare; quando ti fa piangere con chi piange e gioire con chi gioisce; allora capisci che è davvero risorto e tu sei in grado di mostrarlo agli altri. Allora tu non sei più come uno che informa su di Lui o racconta qualcosa di Lui, ma ti lasci diventare la persona in cui Lui stesso si racconta. Senza mai dimenticare che il verbo della testimonianza va declinato sempre al plurale: “noi siamo i testimoni”. Solo due o tre cristiani risorti con Cristo e riuniti nel suo nome, possono rendere testimonianza alla sua presenza, oggi.
Forse questi caratteri della testimonianza cristiana si possono esprimere più semplicemente con un racconto dei chassidim:
“Mio nonno era paralitico. Un giorno gli chiesero di raccontare una storia del suo maestro, il grande Baal Shem. Allora raccontò come il santo Baal Shem, mentre pregava, avesse l’abitudine di saltare e di ballare. Mio nonno si alzò e raccontò; la storia lo eccitò a tal punto da mostrare, saltando e ballando, come avesse agito il maestro. Da quel momento egli fu guarito. Questo è il modo di raccontare storie” (Martin Buber).
4. 1915-2015: nell’arcobaleno multicolore di queste due date è abbracciato un secolo di misericordia che voi, care Suore di Maria Bambina, avete declinato in 36.550 giorni di dedizione, nella comunità educativa di via Angherà. Care sorelle, commemorando il primo secolo di presenza della vostra congregazione nella città di Rimini, come non salmodiare una palpitante litania di gratitudine a Dio che vi ha concesso di testimoniare con amore e indomabile fedeltà il carisma della carità, per un tempo così prolungato? La vostra santa fondatrice, Bartolomea Capitanio, dopo essersi a lungo interrogata e aver pregato per capire se Dio la voleva in clausura o nella vita di carità operosa, illuminata dallo Spirito Santo, ha intravisto la strada, e ha scritto: “Dio vuole un Istituto tutto fondato sulla carità e che abbia per scopo l’esercizio delle opere di misericordia. Una carità fino a dare il sangue e la vita”. Recupero tra queste righe una perla; è una parola tenera e splendente: “misericordia”, un vocabolo incancellabile dal dizionario cristiano. Come non ricordare un domani che questo centenario ricorre a ridosso di appena qualche giorno dall’indizione del “Giubileo straordinario della misericordia”?
Associata all’amica s. Vincenza Gerosa, madre Bartolomea dà inizio a un Istituto che “si china su ogni povertà per servire nelle membra sofferenti Gesù stesso”: gioventù, scuola, educazione, ammalati, anziani, emarginati, privilegiando i più poveri sul modello del primo e più grande evangelizzatore: Gesù in persona. “E tutto solo per Dio e per la sua gloria”. In questo contesto è nata la vostra comunità apostolica, “riunita nel nome del Signore e costituita per la salvezza del mondo”.
Voi siete state fedeli nell’aprire a chiunque ha bussato alle vostre porte per trovare accoglienza, istruzione, sostegno e conforto. Proprio come se fosse lo stesso Cristo a chiedervi di essere accolto. Avete percorso senza sosta e fedeltà infaticabile la strada imboccata dalle fondatrici: fedeli nella sequela dell’Amato,l’Agnello e Sposo del vostro cuore, incarnando con gioia, semplicità e carità lo spirito delle beatitudini evangeliche.
Ora i tempi sono cambiati, come pure le condizioni di vita, ma resta un punto di non-ritorno: la Chiesa non può rinunciare alla testimonianza della carità, che sarà il vostro “lasciapassare” quando vi presenterete a Colui che ha detto: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… Venite benedetti del Padre mio…”. E sarete felici, perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).
Mi torna alla mente il racconto di Tagore:
“Ero andato mendicando di uscio in uscio lungo il sentiero del villaggio, quando, nella lontananza, apparve il tuo aureo cocchio come in un sogno meraviglioso. Mi domandai: ‘Chi sarà mai questo re di tutti i re?’. Le mie speranze crebbero e pensai che i miei giorni tristi sarebbero finiti; stetti ad attendere che l’elemosina mi fosse data senza che la chiedessi, e che le ricchezze venissero sparse ovunque nella polvere. Il cocchio mi si fermò accanto. Il tuo sguardo cadde su di me e scendesti con un sorriso. Sentivo che era giunto finalmente il momento supremo della mia vita. Ma tu, ad un tratto, mi stendesti la mano dicendomi: ‘Cosa hai da darmi?’. Ah, che gesto regale fu quello di stendere la tua palma per chiedere a un mendicante come me! Confuso ed esitante tirai fuori lentamente dalla bisaccia un piccolo chicco di riso e te lo diedi. Ma quale fu la mia sorpresa quando, sul finire del giorno, vuotai per terra la mia bisaccia e trovai nello scarso mucchietto un granellino d’oro! Piansi amaramente di non aver avuto cuore per darti tutto quello che possedevo”.
Ma voi, Sorelle carissime, non avete giocato al rimando né al ribasso con Gesù, il re dell’universo. Anzi vi siete donate tutte e tutto avete donato a lui, senza calcoli e senza riserve. Siatene certe: lui non guarda le immancabili pagliuzze dei nostri limiti e difetti. Piuttosto le fonde nel fuoco dell’amore e le trasforma in pepite d’oro. Mentre vi ringrazio a nome di tutta la città di Rimini per il vostro prezioso servizio educativo, vi incoraggio a continuarlo generosamente, dappertutto, testimoniando l’amore misericordioso di Dio, guardando a Maria bambina, modello di “piccolezza evangelica”. Che il canto, stupito e commosso, per questo vostro “giubileo della misericordia” non abbia mai fine!
Rimini, Basilica Cattedrale, 19 maggio 2015
+ Francesco Lambiasi