Omelia del Vescovo per la professione temporanea di Caterina Capelli e Valentina Di Geronimo nelle Francescane Missionarie di Cristo
Gesù è in cammino alla volta di Gerusalemme, e san Luca non teme di stancarci con il replicare questo tema, quasi fosse l’antifona di un salmo gregoriano. Ma proprio nel primo verso del canto di questo brano evangelico, appena proclamato, si registra una ‘stecca’. E’ la precisazione alquanto strana che vuole Gesù diretto alla Città santa, ma passando prima per la Samaria e poi per la Galilea. Per andare a Gerusalemme, invece, si è soliti seguire il percorso contrario: prima per la Galilea e poi per la Samaria. Una disinformazione dell’evangelista o una distrazione nel riportare le sue fonti? Gli esegeti si spellano le dita per spiegare la stravaganza di questa ‘nota’… stonata. Una cosa è certa: noi sappiamo dall’introduzione dell’evangelista al grande viaggio di Gesù (Lc 9,51s.) che è impossibile seguire il Maestro segnandone il percorso su una cartina stradale. Non si tratta di un viaggio puramente geografico, ma di un cammino con forte valenza simbolica. Gesù dovrà affrontare la salita che porta alla città santa, dove perderà la sua vita per ritrovarla nella risurrezione e per salvare così la nostra umanità affetta dalla ‘lebbra’ del peccato e del più lurido egoismo.
1. Comunque ora Gesù sta percorrendo le stradine assolate e polverose della Samaria. Ed ecco, sul punto di entrare in un borgo, un grido squarcia il silenzio della squallida periferia: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Il grido viene da un gruppo di lebbrosi del vicino lazzaretto. Da notare che è la prima volta che Gesù viene chiamato per nome. “Non vi è infatti sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale noi possiamo essere salvati” (At 4,12).
Il racconto dell’evangelista si snoda, poi, mettendo progressivamente in luce alcuni messaggi, uno più importante dell’altro. I dieci lebbrosi che si fanno incontro a Gesù, rispettano scrupolosamente la Legge mosaica. Si fermano “a distanza” e “alzano la voce”, come prescriveva il Libro del Levitico (13,46). Anche Gesù si mostra rispettoso della Legge e invia i lebbrosi dai sacerdoti per farsi rilasciare il certificato di ottenuta guarigione (Lv 11,2-3). Ma contrariamente all’opinione pubblica del tempo, Gesù non considera i lebbrosi come dei maledetti, degli impuri da evitare o come dei peccatori castigati da Dio. Per Gesù non ci sono persone da discriminare o che debbano mantenere le debite distanze. Tutti possono accostarsi a lui.
Ma non sembra questo il messaggio principale del brano. Il punto è un altro: i lebbrosi sono inviati ai sacerdoti prima ancora di essere guariti: “mentre essi andavano, furono purificati”. Dunque quei poveretti hanno dimostrato una fiducia incondizionata nella parola di Gesù e l’hanno osservata prima di vedere, sono partiti prima di costatarne il risultato. Così la guarigione ottenuta sembra quasi un dono ricevuto per la fiducia da loro espressa senza riserve in Gesù.
Ma neppure questo sembra il messaggio più importante. Se si rilegge con attenzione il racconto evangelico, si nota che il vero punto forte è un altro: tutti e dieci i lebbrosi vengono guariti, ma uno solo viene salvato. Ed è un samaritano, uno straniero doppiamente ‘impuro’: perché samaritano e dunque miscredente e scomunicato, e perché lebbroso e dunque immondo ed escluso. Eppure è l’unico che una volta guarito, prima ancora di recarsi al tempio, fa una decisa inversione ad U e ritorna sui suoi passi da Gesù, rendendo gloria a Dio: un privilegio che molti giudei pensavano che spettasse esclusivamente al popolo di Israele.
2. Oggi, ancora una volta, Gesù fa salire in cattedra un samaritano, ma questa volta non si tratta di un uomo generoso e coraggioso come quello della parabola pennellata da Luca al capitolo 10, ma di un lebbroso. Uno scarto del genere umano, un relitto schifato da tutti, e dunque bisognoso di cura, nel duplice senso – in inglese – di cure (terapia) e di care (interessamento), ossia di trattamento e di coinvolgimento. E Gesù lo laurea a pieni voti e ce lo addita come un modello di gratitudine, un vero campione di stupore. La guarigione che lo ha raggiunto non viene da lui considerata come cosa dovuta e meritata, ma come puro dono, un risanamento del tutto gratuito e per il quale non c’è altro da fare che ringraziare. Ed è proprio per questo che egli “si prostrò” (alla lettera “cadde sul volto”) ai piedi di Gesù, “per ringraziarlo”, lett. “per fare eucaristia”.
Come è stato possibile il passaggio dalla malattia alla guarigione, dalla guarigione alla salvezza, dal lamento al ringraziamento? E’ stato possibile grazie al circuito vitale: dalla grazia al grazie. Il salto dal male – in senso fisico e morale – alla salvezza è stato permesso dal circuito virtuoso: il fiore della gratitudine germoglia dal seme dello stupore e fruttifica nella gratuità di una vita salvata. Una vita grata e gratuita, limpida e lieta. Una vita “a tre b”: bella, buona, beata.
3. In principio, lo stupore. L’uomo è un animale che ha il dono di stupirsi. Anche il cucciolo del gatto sbadiglia. Anche il cucciolo della iena ride. Solo il cucciolo dell’uomo e della donna sorride. Quante volte siamo rimasti letteralmente incantati ai primi sorrisi di un bambino alla mamma e al babbo, e abbiamo provato una tenerezza irresistibile. Quante volte abbiamo visto un giovane papà che solleva in alto il proprio piccolo e finge di farlo cadere, ma il bambino ride a gola spiegata perché sa che dal papà non gli può venire nulla di male. Quante volte ci siamo sentiti afferrare da un brivido di meraviglia al sentire il respiro del bosco, l’abbraccio del mare, la carezza del primo vento di primavera, la dolcezza dell’arcobaleno che avvolge una dorsale di vette sfiorate dall’ultimo sole. Ma oltre alla bellezza del creato, siamo rimasti sbalorditi e stupefatti di fronte alla bellezza delle opere dell’uomo: delle meraviglie dell’arte, della musica, della poesia, del cinema. E siamo rimasti ammirati davanti alla bellezza delle scoperte e delle invenzioni della scienza e della tecnica. Quando sappiamo in tempo reale quanto sta avvenendo in un’isola sperduta della Nuova Guinea. O quando abbiamo contattato tramite un social un figlio che sta studiando in America.
Ma è soprattutto la bellezza della bontà, la sorpresa per i miracoli della generosità, della dedizione, della commovente tenerezza di uomini e donne, di piccoli e grandi, che ci strappano lacrime di consolazione e fremiti di gioia. Un giovane down pubblica un libro dal titolo intrigante – Up and down – e ne sigla l’ultima pagina con queste semplici parole: “Sono un giovane down e sono felice di esserlo”. Una giovane mamma che sta sfiorendo dietro la figlia cerebrolesa dalla nascita – ora ha 29 anni – mi scrive: “Nel momento della prova più dura ho paragonata la vita mia e di mia figlia Vanessa a una pesantissima pedalata in salita, sotto un sole rovente e con il vento contrario. Eppure sono convinta che il Signore faccia parte della nostra vita e continui ad operare con noi due, facendoci vedere tutto il bene di cui ci ha colmate”.
4. Dal seme dello stupore nasce il fiore della gratitudine. La gratitudine è la ‘memoria del cuore’, è quell’atteggiamento che ci permette di riconoscere il debito che abbiamo verso gli altri, quelli che ci hanno preceduto e che ci accompagnano. La gratitudine è inscritta nella nostra creaturalità che ci fa accettare la nostra piccolezza e nello stesso tempo la rende grande, come la nota di un inno che parte da lontano e porta lontano, come l’ouverture della sinfonia dell’universo che ammira, loda, benedice, ringrazia l’Autore di tutte le cose, la sorgente di ogni bontà, il sole di ogni bellezza.
La fede si colloca nella traiettoria che dallo stupore porta alla gratitudine. E’ la fede grata e stupita di fronte all’amore di Cristo che fa poi compiere il terzo passaggio: dalla gratitudine alla gratuità. Se la bellezza del cielo stellato sopra di me rapisce vertiginosamente la mia mente, la bellezza dell’amore del Crocifisso Risorto seduce irresistibilmente il mio cuore. Come Gesù si è sprecato con una vita impegnata e sacrificata per amore, anche il sì di un giovane dentista, che lascia tutto per andare a Mutoko a donare un sorriso ai poveri più poveri, può apparire una vita sprecata. Ma anche il vostro sì – che sigla l’offerta gratuita e irreversibile di due belle ragazze come voi, Caterina e Valentina – deve necessariamente apparire come il sì di due ragazze che o sono innamorate o sono pazze. Oppure sono pazze perché innamorate, folli di quella follia saggia, lucida e cosciente dei veri innamorati.
Quando è così, allora la vita assume le movenze di una danza e non le mosse calcolate di una partita a scacchi, né i rovelli di un rebus cervellotico che ti fa rompere la testa. E così si sperimenta la perfetta letizia, che è la gioia nella prova. E’ la perfetta letizia provata dalla fortissima, tenerissima vostra e nostra Suor Ornella, che è andata incontro allo Sposo con la lampada accesa e con il più dolce dei suoi sorrisi.
Auguri, carissime. Che la vostra festa non abbia mai fine!
– Rimini, Chiesa di s. Agostino, 8 ottobre 2016 –
+ Francesco Lambiasi