Omelia del Vescovo per la festa del Beato Alberto Marvelli
1. Ma si può vivere solo per morire? No, non si può. Recentemente ho letto di una ragazzina di 13 anni che, di ritorno da una visita al nonno moribondo, ha chiesto alla mamma: “Perché dover andare a scuola, perché lavorare, se poi si deve morire?”. La domanda di Cristina è la madre di tutte le domande di significato. Perché coltivare un’amicizia, perché amare una persona, perché intrecciare una relazione, se poi la morte arriva a spezzare ogni legame? A che serve sfiancarsi, sudare, patire per conquistare una meta, se poi, una volta in vetta, ci si spalanca sotto i piedi la buia voragine del nulla? Che senso ha reagire con audacia e speranza davanti a sconfitte e delusioni, se prima o poi veniamo messi sotto scacco matto da una grave malattia, da un incidente fatale, e infine veniamo falciati dalla gelida signora, la morte? Tempo fa lessi pure di un’altra ragazzina, suicidatasi in un bagno della stazione Ostiense a Roma, per un insuccesso scolastico. In tasca ai jeans fu trovato un suo bigliettino arrotolato, indirizzato alla famiglia e alla scuola: “Mi avete dato il necessario e anche il superfluo. Mi è mancato l’indispensabile”.
2. Ma perché siamo al mondo? Noi umani siamo fatti così: veniamo al mondo con una sete bruciante di felicità assoluta, piena, incontaminata. Al momento del decollo per il pianeta Terra ci viene dato tanto, anzi tutto: vitamine, integratori, giochi, svaghi, piaceri. Tutto, tranne il senso di tutto. Ma il senso della vita – si sa – è il sale della vita: quando il senso non è colto, la vita rischia di apparire insapore, incolore, inodore. Nascono allora i drammi dell’alienazione e della noia del vivere. Il più delle volte si è tentati di uscirne stordendosi con droga, sesso, soldi, ‘azzardo’, bullismo…
Purtroppo, però, la domanda di senso viene censurata dalla cultura dominante. Invece del significato dell’esistenza, ci vengono offerti miti ideologici, affermazioni ingiustificate, slogan indiscutibili. Per esempio, il mito della sessualità fine a se stessa, senza ragione e senza altro scopo che non sia il suo stesso esercizio. Per esempio, l’egocentrismo individualistico: “Io faccio quello che voglio. E voglio quello che mi pare e piace”. Ancora: “Io sono mio/mia”. Oppure: “Vietato vietare”. Per esempio, il miraggio della felicità a prezzi stracciati: “Se sei bravo avrai successo. E se avrai successo, sarai felice”. Il senso della vita è forse quello espresso amaramente da un graffito inciso su un muro della nostra università: “Produci. Consuma. Crepa”?
Il nocciolo della questione umana è dunque la questione del ‘senso’. Con gli adulti questo è un discorso difficile da fare: se non l’hanno capito prima di diventare ‘grandi’ e ‘arrivati’, non lo capiscono più. Per voi giovani invece c’è ancora speranza. Quando tirate fuori il coraggio di attivare il cervello, al riparo da slogan e frasi fatte, arrivate a capire che proprio qui sta il problema. E’ il problema del ‘perché’: il perché di ciò che si fa, di ciò che avviene e di ciò che diviene, di ciò che si può cambiare o si deve accettare. Quando non si sa il perché, a lungo andare diventa insopportabile anche il piacere.
3. Ma cosa c’entra Cristo con il senso della vita? Non c’entra niente, se uno lo relega tra i ‘grandi’ della storia, che non sono mai usciti vivi dal loro splendido mausoleo. O si colloca tra i dotti maestri del pensiero, dei quali però nessuno è sopravvissuto al proprio grandioso funerale. O si piazza in fila con Buddha, Confucio, Maometto, o con Gandhi o Nelson Mandela. Se uno invece lo riconosce come crocifisso per amore nostro e risorto per salvarci dall’universale naufragio, allora si arriva a concludere che con Cristo o senza Cristo cambia tutto. Cambia la vita, l’attività, il dolore, il lavoro, l’amore, la morte. Cambia proprio tutto. Solo uno che è risorto, che ha vinto la morte e dunque è vivo qui oggi, può salvarci dalla gelida nebbia del non-senso. “Coloro che si lasciano salvare da Gesù sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (EvG 1). La risposta alla sete di senso non si trova in una voluminosa enciclopedia, ma si scopre in una storia: quella di Gesù di Nazaret. E’ la storia di un amore puro, immenso, incondizionato. Gesù è stato fatto oggetto di una violenza totalmente ingiustificata a cui ha reagito con una dedizione totalmente incondizionata. Ed è risorto. Solo uno che ha vinto la morte, può aiutare a vincere la morte anche a noi. “No, non una formula ci salverà, ma una persona, e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi tutti i giorni” (s. Giovanni Paolo II).
4. Ma che significa essere giovani cristiani oggi? Ci ha risposto Gesù stesso dal vangelo proclamato poco fa: “Voi siete il sale della terra. Voi siete la luce del mondo”. Sono due immagini scintillanti, con cui Gesù vuole scolpire il profilo dei suoi discepoli e tracciare il senso della nostra missione e testimonianza. Per Gesù missione e testimonianza non vivono solo di grandi gesti. Al contrario vivono in primo luogo e soprattutto di piccole azioni quotidiane, secondo un ritmo che comincia la mattina, quando ci si sveglia, e termina la sera, quando si va a dormire. Questo è vivere come il sale che non insaporisce se stesso, ma è indispensabile per dare sapore alle vivande. E come luce che non illumina se stessa, ma squarcia il buio che ci avvolge. Dunque siamo cristiani per gli altri, sempre in missione. Siamo cristiani testimoni, non anonimi cristiani. Ricordiamo che la buona notizia è pubblica, va gridata sui tetti. E così deve essere la missione: pubblica, non pubblicitaria. Pertanto, né sfoggi né scontri, né sceneggiate né crociate. Il ‘mondo’ e la ‘terra’ non sono nemici da combattere, ma realtà da amare, da trasformare, da aprire al Regno. Ma niente autoesaltazione: le opere buone non vanno finalizzate a glorificare se stessi, ma il Padre dei cieli. Però le opere ci devono stare, specialmente le opere di carità. No alla reticenza di chi fa opere buone, e nasconde l’ispirazione evangelica e l’appartenenza cattolica. Ma no anche all’esibizionismo di chi spende la sua appartenenza alla Chiesa non come adesione che genera servizio, ma come merito da ostentare.
Questa è “la santità della porta accanto”, quella di buona lega perché di tutti i giorni, per la quale non è necessario essere vescovi, preti, frati e suore. Basta essere battezzati e discepoli innamorati di Gesù. Come il beato Alberto Marvelli. #MeToo.
Rimini, Chiesa di s. Agostino – 5 ottobre 2018
+ Francesco Lambiasi