Omelia tenuta in Cattedrale per la Messa della notte di Natale 2008
Il Natale, prima che una festa da celebrare, è un avvenimento da “vedere”: questo è il verbo a cui fa ricorso l’evangelista Luca, non certo per alludere ad un fatto da verificare né tanto meno ad uno spettacolo da godere, ma per dire che l’evento di Betlemme è un mistero, un vero mistero gaudioso, tutto da contemplare.
Quando i pastori, che pernottavano facendo la guardia al gregge, furono investiti dalla gloria del Signore e vennero a sapere dall’angelo la bella notizia – il “vangelo” – della nascita del Salvatore, si dissero l’un l’altro: “Andiamo fino a Betlemme, a vedere questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”.
Per altre due volte in poche righe l’evangelista Luca utilizza il verbo “vedere” e lo fa per sottolineare la reazione dei pastori, intrisa di gioia e di meravigliata sorpresa: le cose da essi viste e appurate corrispondevano, fin nei minimi particolari, a come l’angelo le aveva annunciate (vv. 17 e 20). Se però da parte dei pastori lo stupore si esprime nel canto e nella lode, riguardo a Maria invece (gr. de) l’evangelista annota che “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Il rapito silenzio della madre e il canto esultante degli umili pastori di Betlemme non sono due linguaggi alternativi per dire lo stupore grato e il commosso sgomento davanti alla verità del Natale. Anche per noi rappresentano gli atteggiamenti più idonei per non scivolare insensibilmente nell’annoiata routine dei riti ormai corrosi dalla ruggine inesorabile dell’abitudine.
In questo anno dedicato dalla nostra Diocesi alla “contemplazione del volto del Signore”, vogliamo anche noi “andare senza indugio a trovare il Bambino, adagiato nella mangiatoia”: questo è l’evento che ha spezzato in due la linea del tempo, e che pertanto non ci è consentito di leggere con disinvolta, svagata superficialità.
1. Sì, “andiamo anche noi fino a Betlemme”, guardiamo il piccolo Gesù del presepe; contempliamolo con gli occhi del cuore, illuminati dalla fiamma della fede. Lasciamoci percuotere da questo pensiero:
“Non soltanto non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo – scriveva Pascal, quasi con martellante insistenza – ma non conosciamo nemmeno noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo. Non conosciamo la vita, non conosciamo la morte, se non per mezzo di Gesù Cristo. All’infuori di Gesù Cristo, noi non sappiamo né che cos’è la nostra vita né che cos’è la nostra morte, né che cos’è Dio né che cosa siamo noi stessi” (n. 729).
Nel volto del Bambino di Betlemme, noi veniamo innanzitutto a sapere come è fatto il volto di Dio. E prima ancora, come non è fatto.
Il Dio del Natale non è quell’essere ombroso, accanitamente aggrappato alle prerogative del suo status divino, un essere geloso, fino all’ossessione, del segreto della propria onnipotenza, così come Satana aveva viscidamente tentato di far credere ai nostri progenitori. Il Dio del Natale non è un giudice inflessibile che viene in mezzo a noi a infliggere i meritati castighi o che se ne va in giro a distribuire alla cieca malanni, infortuni e disgrazie. Il Dio del Natale non è un sovrano gelido e inavvicinabile, mai abbastanza soddisfatto dei nostri – sempre troppo scarsi! – incensi, digiuni e olocausti.
Il Dio del Natale è il Dio dell’amore. E’ parola di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ci rendiamo conto che l’incarnazione del Verbo è una vera immolazione d’amore? e non ci vengono le vertigini al pensiero di quanto quella immolazione sia costata non solo a lui, il Figlio, ma, e certamente non di meno, anche al Padre? Potremmo anzi arrischiare di dire che la “missione-terra”, in un certo senso, è costata al Padre ancora di più: c’è per un padre un prezzo più alto dell’immolare l’unico figlio anziché immolare se stesso?
Il Dio del Natale è il Dio della salvezza: il suo nome è Gesù, che significa: “Dio-salva”. Il nostro Signore è veramente “il salvatore dei disperati” (Gdt 9,11). Nella strabiliante impresa dell’incarnazione del Figlio, brilla, incontaminata, la gratuità del suo amore incrollabile: per liberarci dai nostri mali, il Verbo si è fatto servo per amore; per arricchirci della sua grazia, “da ricco che era, si è fatto povero per noi” (2Cor 8,9).
Il Dio del Natale è il Dio del mistero, un mistero eccedente, fatto di irreversibile oblatività. Dio infatti non è l’esecutore implacabile di spietate rappresaglie, ma colui che non finisce di sorprenderci con le sue eccessive, inimmaginabili meraviglie. A Natale Dio si presenta in modo sconcertante e del tutto imprevedibile: noi forse ce lo saremmo aspettato come un sovrano glorioso e impettito, con molte corone e tantissimi trofei, o come un V.I.P. famoso dalla audience insuperabile, o come un vincitore incallito e imbattibile. E invece è un Dio che viene al mondo per imparare a perdere, anzi a “perdersi” per nostro amore, a donarsi a fondo perduto, in libera uscita da se stesso.
Dio è Padre: questo è il suo nome luminoso e dolcissimo che comincia a brillare a Natale. Se Dio ha un Figlio, è segno che lui è Padre. Non un padre-padrone, ma Padre-Abbà. Non un anonimo “Signor Ingegnere” dei cieli e della terra, che una volta fabbricato l’universo, lo manda in automatico, si mette in aspettativa e se ne va in pensione. Con la nascita a Betlemme, Gesù bambino diventa la prova incontrovertibile che attributi divini come l’Immenso, l’Eterno, l’Onnipotente, diventano di colpo semplici aggettivi qualificativi, mentre il titolo di Padre passa da uno dei tanti attributi di Dio – come era nell’AT – a identificare d’ora in poi il suo nome proprio.
2. Oltre che a rivelarci il volto di Dio, il Bambino di Betlemme ci dice anche l’autentico volto dell’uomo. Infatti, se il vero nome di Dio, quale si manifesta a Natale, è “Padre”, il vero nome dell’uomo, creato a immagine di Dio, è “figlio”: “rivelando il mistero del Padre e del suo amore, il Verbo incarnato svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (GS 22). Cristo è lo specchio dell’uomo: nel volto di Cristo l’uomo vede riflesso il proprio volto. Che cosa significhi essere stati creati a immagine di Dio ci viene pienamente svelato soltanto nell’immagine del Figlio incarnato. Nel Natale di Cristo noi celebriamo anche il natale dell’uomo nuovo, il cristiano.
Dobbiamo però riconoscere che, alla fine del secondo millennio e all’inizio del terzo, si è dolorosamente dilatata la forbice tra la visione cristiana dell’uomo e quella della cultura liberal-radicale. Al pensiero forte della nostra fede, che considerava la natura umana immutabile perché creata da Dio, si è sostituito il pensiero debole di una natura umana considerata manipolabile, perché prodotta dalla biotecnologia. All’uomo procreato è subentrato l’uomo clonato. L’uomo immagine di Dio è stato rimpiazzato con l’uomo fotocopia dell’uomo. La vita umana è diventata materiale biologico, il corpo umano una riserva di pezzi di ricambio. “La conseguenza terribile di questa trasformazione è che tutto ciò che è fatto può essere anche disfatto” (I. Sanna).
Ma nell’uomo del terzo Millennio continua a pulsare un cuore che è lo stesso di quando l’uomo diede per la prima volta del tu a Dio e per la prima volta disse ad una donna: “ti amo”. Un cuore che era, è e sarà sempre “un crepaccio assetato di infinito” (Kierkegaard). Questa sete non si può estinguere né con la cultura dei consumi che cambia i prodotti in bisogni, né con la cultura dei sogni che trasforma i desideri in diritti. Quando abbondano i mezzi e scarseggiano i significati, il passo verso il delirio di onnipotenza è breve: e si precipita fatalmente nel “buco nero” del nulla…
Dobbiamo tornare alla scuola di Betlemme. Contemplando il piccolo Bambino , la fragile e umanissima apparizione di Dio nella nostra storia, abbiamo imparato che cosa significhi essere uomini: significa essere gli “amati”, i “prescelti”, i “benedetti”, quelli ai quali è stato dato “il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). A Betlemme abbiamo imparato che ogni uomo va trattato da Dio, poiché il Figlio di Dio ha voluto essere e farsi trattare da uomo. Là abbiamo imparato che Dio è venuto a condividere la vita dell’uomo perché l’uomo diventasse “partecipe della natura divina” (cfr 2Pt 1,4). Ma a Betlemme abbiamo imparato pure che l’uomo deve essere tanto più amato, rispettato e onorato quanto più è debole, sofferente e indifeso. Abbiamo imparato che chi tiene in vita anche un solo neonato o un non-ancora-nato, tiene in vita il mondo intero, e chi salva la vita anche di un solo uomo, in un certo senso salva addirittura Dio stesso.
Ma c’è di più, molto di più: il Natale è un evento che permette a Dio non solo di dirsi, ma anche di darsi: di dirci la sua Parola e di darci la sua Vita. E così nel Figlio di Maria si compie l’incontro tra la nostra umanità e la sua divinità, tra la nostra povertà e la sua grandezza. Dio è diventato figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio.
“O dolce scambio, o ineffabile creazione, o imprevedibile ricchezza di benefici: l’ingiustizia di molti viene perdonata per un solo giusto e la giustizia di uno solo cancella l’empietà di molti” (A Diogn.).
In questa liturgia ci è dato, per grazia, non solo di celebrare la nascita del Signore, ma di renderla nuovamente presente. E così, nell’umanità del Figlio di Dio, l’appuntamento tra Dio e l’uomo giunge finalmente a compimento.
Natale è accaduto duemila anni fa, per accadere ora qui. Ed accade ora qui, per accadere ogni giorno, fino all’ultima sera della nostra vita, fino a quando spunterà per tutta l’umanità il giorno eterno dei nuovi cieli e della terra nuova. E canteremo per sempre: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla nuova terra pace agli uomini, amati dal Signore”.