Contemplando il volto di Cristo Pastore

Omelia nella solennità di s. Gaudenzo – Basilica Cattedrale, 14.10.2008

Delicata e avvincente, l’immagine del buon Pastore non finisce di colpire. Ma ci rendiamo conto che Gesù l’ha pennellata non tanto per intenerire quanto piuttosto per provocare? Se così è, si impone una domanda: è per non farci percuotere dal suo messaggio, che ne enfatizziamo il lato più tenero e toccante, e tentiamo di addomesticarne quello più ruvido e più pungente?

Per riscoprire lo strato originale della metafora del buon Pastore, è necessario compiere un’accurata opera di “raschiatura”: dobbiamo eliminare la spessa patina di sovrapposizioni oleografiche, per lasciar brillare l’icona nella sua pura e semplice bellezza.


1. Torniamo al “Pastore grande delle pecore” (Ebr 13,20), lasciandoci guidare dall’evangelista Giovanni, e domandiamoci: in che senso Gesù si è definito come il “buon Pastore”? che cosa intende quando qualifica il suo essere pastore precisamente come “buono”?

Dietro questo aggettivo, sembra ci sia da intravedere, come in filigrana, il racconto della scelta di Davide come re d’Israele. Ricordiamo la scena (cfr 1Sam 16): Dio chiama l’anziano Samuele a recarsi a Betlemme, presso la famiglia di Iesse, perché tra i suoi figli ne ha scelto uno che dovrà essere consacrato re. Sfilano davanti al profeta i primi sette giovani fratelli, uno ad uno, e, dopo aver scartato il primo, per tutti gli altri Samuele ripete come un ritornello: “Nemmeno costui il Signore ha scelto”. Ne restava l’ottavo, il più piccolo, Davide, rimasto nei campi a pascolare il gregge. Quando arriva, Samuele si trova davanti “un giovane fulvo, con begli occhi e bello di aspetto”. Tra parentesi, queste parole saranno prese quasi di peso da Dante e appropriate a Manfredi, descritto con un endecasillabo squillante: “biondo era e bello e di gentile aspetto”. Per quanto ben fatto, un ragazzo così minuto e delicato sembrerebbe il meno adatto a salire sul trono, sia per la giovanissima età sia per la costituzione fisica, più appropriata al ruolo di un coppiere di corte che a quello di un vero re, il quale tra l’altro doveva essere vigoroso e prestante per poter comandare da grande condottiero il suo esercito in guerra. E invece è proprio Davide, e nessuno degli altri sette fratelli, colui che Samuele deve ungere e consacrare come successore di Saul, perché “l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (v. 7).

Quando poi sarà consacrato re d’Israele, sul giovane figlio di Iesse viene proclamato l’oracolo del Signore: “Tu pascerai il mio popolo Israele” (2Sam 5,2). Da quel giorno Davide si è sempre percepito come il pastore del popolo che gli era stato affidato. Ricordiamo l’episodio drammatico di quando Israele venne colpito dal tremendo flagello di una peste devastante: Davide “vedendo l’angelo che colpiva il popolo, disse al Signore: <<Io ho peccato, io ho agito male; ma queste pecore che hanno fatto? La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio padre>>” (2Sam 24,17). E’ da notare di passaggio che la metafora del pastore era di larghissimo uso nel mondo antico, per interpretare la funzione di un re. Così, il sovrano babilonese Hammurapi nel XVIII sec. a.C. si autodefiniva pastore, e Omero qualifica Agamennone come “pastore di popoli”.

Purtroppo però Davide non è stato sempre solidale fino in fondo con il suo popolo. Ad esempio, proprio quando il suo esercito è in guerra e si sta giocando la pelle per il suo re, il re invece se ne sta a palazzo a fare la dolce vita: si invaghisce di una donna, sposata con uno dei suoi prodi più fedeli; si macchia di peccati gravissimi come l’adulterio e l’omicidio.

Con i successori di Davide le cose peggiorano fino ad arrivare alla terribile maledizione, scagliata dal profeta Ezechiele, contro i pastori che pascolano se stessi e fanno strage del gregge. A questo punto Dio sembra rompere ogni indugio e si compromette personalmente con una promessa inaudita: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo” (Ez 34,15). Subito dopo, l’oracolo si precisa con contorni più netti, per prefigurare il Messia davidico che raccoglie le speranze di tutto il popolo: “Susciterò per loro un pastore, il mio servo Davide” (ivi, v. 23).

2. La promessa divina si compie con Gesù, il Messia, “figlio di Davide”, e si realizza in tutto il suo spessore drammatico, in un contesto intriso di spietata violenza, attraversato dagli ululati raggelanti di lupi feroci, mentre si infittiscono le losche trame di ladri, briganti, di mercenari voraci e furfanti vari. Nella solenne cornice della festa dei Tabernacoli, quando il suo destino è ormai segnato, Gesù si accredita come il “Pastore bello”, bello perché “buono”, buono e perciò “vero”.

Una descrizione plastica di questo bel Pastore la si ritrova in un antichissimo cippo funerario (II sec.), in cui un cristiano di nome Abercio, si accredita come “discepolo del casto Pastore che pasce greggi di pecore per monti e per piani; egli ha grandi occhi che guardano dall’alto dovunque”.

Cristo è il Pastore in assoluto, quello autentico, ideale, unico, in quanto – come ripete egli stesso per ben tre volte nel giro di pochi versetti – promette di offrire la vita per le sue pecore. L’allusione al sacrificio della croce è trasparente; lo rileva il Papa nel suo Gesù di Nazaret, commentando il nostro passo:

“Gesù trasforma l’atto di violenza esterno della crocifissione in un atto di offerta volontaria di se stesso per gli altri. Gesù non dà qualcosa, bensì se stesso. Così egli dona la vita”.

La metafora del pastore e del gregge non va recepita, come avviene nella nostra cultura,  secondo una prevalente accezione negativa, nel senso di una alienazione della propria personalità a favore di un gruppo – il “gregge” – puramente passivo, di cui si sarebbe appunto “gregari”. Della metafora va piuttosto esplicitata l’allusione alla preziosità del gruppo ecclesiale agli occhi di Gesù-pastore, stante la componente di ricchezza sociale che la proprietà di un gregge denotava nell’antichità: ricordiamo che il latino pecunia, nel senso di denaro, deriva da pecus, gregge, bestiame.

3. La storia del Pastore-capo si prolunga in quella dei vescovi e presbiteri, chiamati a pascere il gregge di Dio (cfr 1Pt 5,2). Si domanda s. Agostino a proposito di Pietro, Paolo e degli altri apostoli:

“Erano pastori? Certamente. Ma non c’è un solo Pastore? L’ho già detto: erano pastori perché membra del Pastore. Erano contenti di avere lui come capo, vivevano in pieno accordo sotto di lui, vivevano del medesimo Spirito nella compagine del medesimo corpo; e perciò appartenevano tutti all’unico Pastore” (Omelia 46,7).

Conformati al supremo Pastore, il vescovo e i presbiteri trovano nella carità pastorale l’elemento centrale e unificante della loro identità teologica e della loro vita spirituale (cfr P0 14). Tale carità si chiama “pastorale” perché si riferisce primariamente a Gesù Cristo:

“Solo se ama e serve Cristo Capo e Sposo, la carità diventa fonte, criterio, misura, impulso dell’amore e del servizio del sacerdote alla Chiesa, sposa di Cristo” (PO 15).

Quindi è l’amore verso Cristo Pastore che fonda, motiva e misura l’amore verso il gregge, non il contrario. Non è la capacità di dominio, non è la congenialità con il potere, non è la dialettica o l’abilità diplomatica, ma la disponibilità radicale ad offrire la propria vita per la vita dell’intero popolo di Dio, come anche di una sola pecora, perché una sola pecora vale quanto l’intero gregge.

Ma se il servizio pastorale non scaturisse dall’amore del presbitero verso il Signore, scadrebbe fatalmente a gelida prestazione burocratica di un funzionario inappuntabile o si ridurrebbe alla interessata servitù di un famelico mercenario. E non sarebbe più la donazione gratuita e appassionata di un discepolo fedele, follemente innamorato del suo Pastore, perché si sa e si sente da lui follemente amato di un amore più grande, infinitamente più grande, più puro e più gratuito del suo.

In conclusione dobbiamo dire due grazie e domandare una grande grazia. Il primo grazie è indirizzato a papa Benedetto, al quale vorremmo gridare con i giovani di tutto il mondo: “Grazie, Benedetto XVI, perché ci sei. Grazie perché sei la guida instancabile del tuo gregge, perché ti consumi per dare a ogni uomo il vangelo della verità e della vera libertà. Grazie, perché, sull’esempio del buon Pastore, conduci l’umanità a ritrovare la via della pace, nella giustizia e nell’amore”.

Un secondo grazie lo vogliamo dire ai nostri sacerdoti che pascolano il gregge di Dio, “non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio, non per vergognoso interesse ma con animo generoso, non come padroni delle persone ma facendosi modelli del gregge” (cfr 1Pt 5,2-3).

E infine vi chiedo di pregare – ecco la grande grazia che vi invito a chiedere  per me – perché io sia fedele al servizio apostolico, affidato alla mia povera persona, e, per intercessione di san Gaudenzo, primo nostro pastore, diventi tra voi ogni giorno di più immagine viva e autentica di Cristo sommo ed eterno sacerdote, maestro e servo nostro, il dolcissimo e fortissimo Pastore di tutti.