Nel suo gregge non veniamo né spersonalizzati né deresponsabilizzati
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della santa Eucaristia della IV Domenica di Pasqua (Anno B), celebrata alla Convocazione del Rinnovamento nello Spirito
Fortissimo, tenerissimo Gesù! Un giorno, a Gerusalemme, in una polemica rovente ingaggiata dai farisei, gli fu sbattuta in faccia dalla rissosa controparte la domanda ultimativa: “Ma tu, tu chi sei?” (cfr Gv 8,25). E’ curioso notare che quando l’interrogativo sulla propria identità gli viene posto in modo subdolo e aggressivo, la replica di Gesù risulta piuttosto sfuggente. Ma non ci si può sottrarre alla domanda fatale: chi è Gesù di Nazaret? Certo, non vogliamo cadere nell’abbaglio di pretendere di essere noi a dettargli la carta di identità o a consegnargli la chiave dell’insondabile mistero che lo abita. Ci si deve arrendere: Cristo conosce la cristologia infinitamente di più di quanto non la conoscano i cristologi! Non resta perciò che mettersi in ascolto delle sue limpide, categoriche dichiarazioni, come le ben sette autodesignazioni – presenti nel quarto vangelo – che iniziano tutte con la formula solenne: “Io-Sono”, e vengono etichettate dagli esegeti come “io-sono predicativi”: “Io sono il pane della vita… la luce del mondo… la porta… il buon pastore… la risurrezione e la vita… la via, la verità e la vita… la vite vera”.
1. Misterioso, ma tutt’altro che enigmatico, Gesù rivela il segreto della sua più intima e autentica personalità a chi è ben disposto ad ospitarlo nel proprio cuore. Nel brano evangelico proclamato poco fa, il Maestro si specchia nella metafora a lui più cara, quella del pastore, e si mette a tessere il suo più fedele autoritratto, servendosi di due fili robusti, che fanno da trama e da ordito all’intera figura: il filo della fortezza del pastore e quello della sua ineguagliabile tenerezza.
Gesù è il bel pastore, bello perché forte e tenero insieme. Con indomito coraggio difende le sue pecorelle dagli artigli dei lupi, le protegge dai meschini interessi e dalle brame fameliche del mercenario – non per nulla pecunia si fa derivare da pecus! – e le tutela dalle losche trame e dagli agguati insidiosi di ladri e briganti. Ma il nostro Pastore è bello anche perché è tenerissimo, mite e dolce di cuore. Mentre Gesù si racconta, scorrono in dissolvenza le immagini pennellate dal profeta Isaia: “Ecco, come un pastore egli fa pascolare il gregge / e con il braccio lo raduna; / porta gli agnellini sul petto / e conduce dolcemente le pecore madri” (Is 40,11). O quelle, non meno toccanti, del profeta Ezechiele: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca di quella perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata” (Ez 34,15s).
Gesù si rivela come il pastore talmente innamorato del suo gregge da sballare i calcoli: se lascia le novantanove pecore nell’ovile per andare in cerca di quella perduta, è segno che nella sua strana aritmetica uno è uguale a novantanove. Anzi c’è di più: questo Pastore considera la pecorella smarrita più importante di se stesso, al punto da offrire anche solo per quella il dono della propria vita. Così la metafora supera se stessa: quando mai si è visto in giro un pastore così? Ecco perché Gesù è il bel pastore: bello del fascino dell’amore, ci avvince con la sua sorprendente generosità e il suo incredibile coraggio.
2. Non possiamo però passare sotto silenzio quella sorta di allergia urticante che l’immagine del gregge provoca in noi, cristiani di oggi, e che si può riassumere in due obiezioni. La prima è espressa in questo dubbio: a noi che viviamo in una società ad alto tasso di individualismo narcisista e autoreferenziale, l’immagine di una Chiesa ‘gregge’ non ci fa venire forse il sospetto di un collettivismo spersonalizzante?
Possiamo stare sereni. Il nostro Pastore “chiama le sue pecore, ciascuna per nome” (Gv 10,3). E’ vero che Gesù “ci ha amati e ha dato la sua vita per noi“, ma il plurale ‘noi’ non è tanto un plurale collettivo, quanto piuttosto distributivo: ci ha amati tutti e ciascuno, per nome, uno ad uno. Per questo san Paolo può dire: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Nella Chiesa lo Spirito ci fonde nell’unità, ma non ci confonde nell’uniformità. Entrando a far parte del suo gregge, non regrediamo nell’impersonale. Non rischiamo di perdere la nostra singolare, irripetibile, originalissima personalità, perché lo Spirito Santo mentre unisce tutti i credenti in Cristo, non li differenzia per numero, ma li distingue per nome, e fa fiorire la varietà dei doni, delle vocazioni, dei servizi. L’unità da lui creata è comunione di distinti, non confusione di identici. Lo Spirito della Pentecoste non azzera le personalità, ma le promuove. Come si vede nel variegato campionario dei santi: tutti rassomigliano a Cristo, ma nessuno è intercambiabile con un altro. Teresa di Calcutta riproduce un Gesù al femminile, come Caterina da Siena, ma Teresa non è la copia conforme di Caterina. Il “Pastore grande delle pecore” (Ebr 13,20), guarda i gigli dei campi e gli uccelli del cielo, ma per lui tu sei tu e vali molto di più dei fiori e dei passeri. Fin dal grembo di tua madre Dio Padre ha sillabato il tuo nome, e ti ha disegnato sulle palme delle sue mani (cfr Is 49,1.16). Tu sei prezioso ai suoi occhi, come nessun altro. E’ solo “quando entriamo in rapporto personale con Cristo – afferma Benedetto XVI – che lui ci rivela la nostra identità e, nella sua amicizia, la Vita cresce e si realizza in pienezza”.
Chiamati uno ad uno e salvati insieme: così la Chiesa ‘dimostra’ la santa Trinità, nel senso che si mostra come la sua insostituibile ‘prolunga’ sulla terra. Come in Dio le tre Persone sono perfettamente uguali, ma anche perfettamente distinte e perciò perfettamente unite, così la Chiesa si presenta non come una somma di individui, ma come veramente è: una comunione di persone. La comunità cristiana non è una massa di anonimi o una folla di ignoti, ma una comunità di chiamati. Dal fatto che l’Uno è Trino, san Tommaso d’Aquino affermava che la comunione nell’unità si oppone alla divisione tra gli individui, non alla pluralità delle persone (cfr S.Th. I, q.30, a.3, ad 3).
3. Infine affrontiamo brevemente l’altro sospetto che grava sulla metafora del gregge, il sospetto di gregarismo, termine dispregiativo che deriva appunto da ‘gregge’ e indica atteggiamenti di dipendenza remissiva e di supina passività. Vale anche qui quanto già detto: il gregge del bel Pastore è un gregge speciale. La metafora vuole indicare una cordiale docilità nei confronti di Cristo, non una rassegnata inerzia nella comunità cristiana. Quella del gregge è metafora tutt’altro che deresponsabilizzante. In effetti la Chiesa è un gregge di pecore, non un branco di pecoroni. Nella Chiesa del buon Pastore vige, certo, una “comunione gerarchica”, ma anche i pastori ordinati sono e restano prima di tutto dei battezzati; perciò sono e restano doppiamente dipendenti da Cristo: in quanto battezzati e in quanto ordinati. Gli ‘anziani-pastori’ stiano piuttosto attenti a “non sorvegliare il gregge perché costretti, né per vergognoso interesse, né spadroneggiando sulle persone” (cfr 1Pt 5,2s). In effetti, in forza dell’unico e identico battesimo, nella Chiesa siamo tutti pecore. Tutti i cristiani, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo della vera grandezza non tanto nel rivestire questo o quell’incarico nella comunità cristiana, quanto nell’essere dei battezzati. Il titolo della vera dignità per me non è quello di essere vescovo, ma quello di essere cristiano. Prima di tutto siamo tutti pecore, e perciò dei redenti per grazia, e per grazia siamo dei ‘corredentori’.
Da qui discende la legge della corresponsabilità nella Chiesa. Tutti sono corresponsabili di tutti nell’azione salvifica, e quindi tutti i battezzati, senza eccezioni, sono chiamati a partecipare in qualche forma al servizio pastorale, in necessaria e coordinata cooperazione con quelli che sono pastori per ministero. Nessuno può essere considerato puramente un destinatario dell’azione pastorale. Qualunque sia il nostro servizio – ministri ordinati, genitori, educatori, catechisti e altri operatori pastorali – siamo tutti chiamati a servire, nella logica e nello stile del bel Pastore: la logica e lo stile del dono a fondo perduto.
Oggi celebriamo la Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni sacerdotali. Preghiamo perché molti giovani rispondano alla chiamata del bel Pastore con umile, grata e incondizionata generosità. A loro dedichiamo il pensiero del Papa: “E’ bello sapere che Gesù ti cerca, fissa il suo sguardo su di te, e con la sua voce inconfondibile dice anche a te: Seguimi!“.
Rimini, 28 aprile 2012
+ Francesco Lambiasi