Omelia tenuta dal Vescovo per il Giovedì Santo
Consegnò se stesso. La legge fondamentale della vita è il dono della vita. Non è l’autopreservazione. Né l’autorealizzazione. È l’autodedizione. Gesù ne aveva fatto il cuore del suo appello alla conversione: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà“. È il versetto più attestato nei quattro vangeli. Gesù non ha mai fatto carte false con i suoi: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua“. L’aveva riaffermato qualche giorno prima, la domenica delle palme, con il lampo di quella immagine tenera come una fogliolina di primavera: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo“.
1. Consegnò se stesso. E’ calata l’ultima sera nella vita di Gesù. È arrivata l’ora più buia di tutta la storia dell’umanità. Uno dei suoi amici stava per venderlo. Il capo dei Dodici stava per rinnegarlo. La maggior parte degli altri se la sarebbe data a gambe. Eppure quando tutto sembrava ormai irrimediabilmente perduto, e all’orizzonte non si profilava più alcun futuro, Gesù ha compiuto un gesto sconvolgente al limite della follia, all’estremo dell’amore. La follia dell’amore più grande. Mentre stava cenando con i suoi amici, ha preso il pane. Ha cantato l’inno di benedizione al suo dolcissimo Abbà e lo ha ringraziato per il dono stupendo della vita. Ha spezzato l’azzima, e l’ha data ai discepoli, dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi“. Corpo “dato”. Variante del verbo dare è consegnare. Questo verbo fa da filo rosso che serve a cucire i vari passaggi della passione di Gesù. Da una parte c’è la consegna che potremmo chiamare orizzontale: Giuda consegna il Maestro ai capi dei sacerdoti, poi questi a Pilato, quindi Pilato ai crocifissori (cf. Mc 14,10; 15,1.15). Dall’altra c’è la consegna verticale: Dio Padre consegna il Figlio per noi (cf. Rm 8,32) e il Figlio, per noi, consegna se stesso (cf. Ef 5,2). Nel momento drammatico del tradimento, della cattura, del processo, della condanna, della crocifissione, il corpo di Gesù viene di volta in volta consegnato, mentre di volta in volta Gesù continua fino all’ultimo a consegnare il suo corpo.
2. Consegnò se stesso. Ma fu una necessità o fu un atto di libertà? Su un punto nevralgico di tutta la storia di Gesù, le fonti sono convergenti. Gesù ha anzitutto compreso la sua morte in croce come una necessità. Più volte lui stesso ne aveva parlato in questi termini: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani (del sinedrio), dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso” (Mc 8,31). Ma Gesù è altrettanto consapevole della sua libertà di scelta:
“Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,17s).
Dunque, necessità e libertà, comando e obbedienza, fedeltà alla volontà del Padre e coerenza con la sua libera scelta. Come sciogliere questo nodo?
Gesù non è un ingenuo incallito né un inguaribile buonista. Sa bene, molto bene, che sono gli uomini – in particolare le autorità ebraiche e romane – a volere la sua condanna. Ed è ben consapevole che la ragione dell’opposizione che incontra è proprio la verità di Dio che egli insegna. Se dicesse la menzogna, non lo condannerebbero.
“Voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità. (…) A me voi non credete, perché dico la verità.” (Gv 8,40.45)
3. Consegnò se stesso. La necessità della condanna di Gesù non è estranea al suo percorso, ma è interna, anzi intima alla sua libera scelta, quella appunto di dire, costi quello che costi, la verità su Dio. Gesù non ha scelto di morire sulla croce, però ha scelto di vivere per dare – costi anche la morte – testimonianza alla verità. Gesù non muore come un implacabile kamikaze che si uccide per uccidere. Ma neppure come un morboso masochista che non vede l’ora di morire e anzi va incontro al carnefice supplicandolo di farlo fuori. Gesù non va incontro alla morte neppure come un eroe greco, con piglio sufficiente e passo impavido. Ma muore come un martire che aveva scelto consapevolmente e liberamente di portare un messaggio di verità e di amore. E per questo imboccato una strada che non poteva esporlo necessariamente alla contrapposizione, alla sofferenza e perfino alla morte più raccapricciante e violenta. Ora l’alternativa per lui è secca. O svolta indietro con una brusca inversione ad U, dichiara di essersi sbagliato e sottoscrive una radicale autocritica. E così verrà rilasciato libero e gli offriranno ponti d’oro. Oppure rimane coerente con il suo messaggio e fedele alla sua missione. E allora il rischio della morte si farà ‘fatalmente’ serio e concreto. Ma di fronte alla morte Gesù non ha mostrato solo una tenace coerenza. Ma ha dimostrato una docile, libera obbedienza. Una obbedienza senza se e senza ma, che non è inversamente proporzionale alla libertà di scelta, poiché l’obbedienza è il frutto maturo della libertà, e la libertà è la radice segreta dell’obbedienza. Infatti “chi regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela” (Don Milani). In breve, la croce di Gesù non è né una fatalità né un incidente. Infatti la fatalità è una necessità cieca, senza senso e senza scopo. E l’incidente è un fatto casuale e fortuito: sarebbe potuto non esserci e non sarebbe cambiato niente.
4. Consegnò se stesso. La croce non è, certo, la risposta al perché esiste il dolore, ma è senz’altro la risposta al come viverlo, trasformandolo in strada di speranza. Nella croce il discepolo vede che anche il peccato, l’errore, il dolore sono condivisi da Gesù. E questo offre al discepolo una possibilità impensata: quella di condividere a sua volta, la passione del suo unico Maestro e Signore. E di riceverne tutta la grazia che gli occorre per trasformare il dolore in amore.
Questo è il vangelo della croce. Si scrive croce e si legge vita. Si scrive morte e si legge amore.
Rimini, Basilica Cattedrale, 29 marzo 2018
+ Francesco Lambiasi