“Oggi non indurite i vostri cuori”
Omelia tenuta dal Vescovo nel corso della Messa del Crisma
Oggi. La primissima delle prime parole pronunciate da Gesù all’inizio della sua attività pubblica è proprio questa paroletta tra le più feriali e concrete: oggi. Nella scena inaugurale affrescata da san Luca e ambientata nella sinagoga di Nazaret, in giorno di sabato – un sabato ordinario, certo, che però sigla l’inizio di un tempo straordinario – dopo aver riavvolto il rotolo di Isaia, in un silenzio sospeso, folto di sguardi fissi e stupiti, quel giorno Gesù cominciò a dire: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Oggi: l’avverbio di tempo – molto caro al terzo vangelo al punto da ricorrervi ben sette volte e ogni volta piantato lì a rimarcare eventi di salvezza – non indica semplicemente le 24 ore di quella giornata, che per altro rimane indeterminata quanto alla data precisa. Quell’oggi rimbalza per cinque volte, nel giro di pochi versetti, nella Lettera agli Ebrei (cfr 3,7.13.15;14,7), e sta ad indicare il giorno interminabile della salvezza inaugurata da Gesù, il tempo della grazia che tracima e si prolunga nel tempo senza tempo della nuova ed eterna alleanza. Citando il salmo (95,4) – “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” – la Lettera agli Ebrei ci pungola con appello perentorio: “Esortatevi a vicenda ogni giorno, finché dura quest’oggi, perché nessuno di voi si ostini, sedotto dal peccato”.
1. Nell’oggi durevole del tempo che scorre sotto il cielo della grazia, la salvezza ci è offerta, ma con l’impegno di corrispondervi con la nostra conversione. Questo impegno – si dirà – era richiesto anche nell’Antico Testamento. Certo, ma allora era condizione imprescindibile per ottenere la salvezza; nel Nuovo Testamento invece ne è la necessaria conseguenza. In altre parole: i profeti fino a Giovanni Battista dicendo “Convertitevi!”, volevano dire: Convertitevi per essere salvi. Ma con Gesù il baricentro della storia si è spostato, e anche conversione e salvezza si sono scambiate di posto. E’ solo dopo aver detto: “Il regno dei cieli è vicino”, che Gesù aggiunge: “Convertitevi e credete al vangelo”. Gesù non vuol dire: Convertitevi perché siate salvi, ma: perché siete salvi. Prima c’è il dono di Dio, poi la risposta dell’uomo, e non viceversa. La prima e fondamentale conversione è la fede.
Ma, allora, quando convertirsi? la risposta è: oggi. Oggi è il giorno della conversione. Infatti quello della conversione è cammino mai concluso e, insieme, strada sempre da ricominciare. Antonio il grande, patriarca di tutti i monaci, lo diceva in modo lapidario: “Ogni mattina mi dico: Oggi comincio”. E abba Poemen, il più famoso dei padri del deserto dopo Antonio, a chi in punto di morte lo lodava per aver vissuto una vita beata e virtuosa che lo metteva in condizione di presentarsi a Dio con estrema tranquillità, rispose: “Devo ancora cominciare; stavo appena iniziando a convertirmi”.
Ma che cosa c’è di specifico nella conversione del prete? E, prima ancora, a che cosa, anzi, meglio, a chi il prete è chiamato a convertirsi? Perché non ci si converte a una dottrina, a un valore, a una istituzione, a una bandiera, ma a una Persona. Un prete è chiamato a convertirsi instancabilmente alla carità pastorale, ossia alla dolce fortezza del buon Pastore, a quell’amore tenero e tenace che lo porta a dare via la propria vita – tempo, talenti, risorse – per la vita del gregge a lui affidato. Solo un prete che considera la sua più alta grandezza non quella di essere prete, ma quella di essere battezzato; solo un prete che si considera agnello appartenente come tutti i battezzati all’unico ovile di Cristo, può essere un buon pastore. Insomma, la stoffa del buon pastore è fatta della buona lana dell’agnello. Ha detto papa Francesco ai cardinali: “Quando camminiamo senza la croce, quando edifichiamo senza la croce e quando confessiamo un Cristo senza la croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani. Siamo preti, vescovi, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore”. Potremmo aggiungere: la vera eccellenza per un vescovo non è quella di essere vescovo; la vera eminenza per un cardinale non è quella di essere cardinale. La vera eccellenza e la vera eminenza è quella di essere cristiani, e basta. Niente di più e niente di meno che poveri cristiani.
3. Torniamo alla domanda sul peso specifico della conversione per un prete. Lo specifico è questo: un prete si converte nel ministero e con la gente.
Nell’esercizio stesso del ministero: siamo portati a pensare alla vita spirituale del presbitero come a una corsia che scorre parallela al ministero, e invece è dentro il ministero che un presbitero è chiamato a convertirsi. Parola di Concilio: l’apostolato, con tutti i ‘pericoli’ e le ‘tribolazioni’ che comporta, non è di ‘ostacolo’, ma di stimolo e di aiuto per “una maggiore santità” (LG 41). “I presbiteri sono ordinati alla perfezione della vita in forza delle stesse sacre azioni che svolgono quotidianamente, come anche di tutto il loro ministero, che esercitano in stretta comunione con il vescovo e tra di loro” (PO 12).
Ma dire che un prete si converte nel ministero ci costringe a uscire da una sorta di individualismo spirituale solitario ed elitario. L’individualismo è una brutta pandemia che rischia di ammorbarci tutti. L’individualismo non solo è il vizio dei “padri”, è anche il padre di molti vizi, come l’attivismo. Dobbiamo ricordarci a vicenda che il primo dono che i presbiteri devono fare alla Chiesa e al mondo non è l’attivismo, ma la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta (cfr CdA n. 724). Perciò è più importante che io viva l’unità nel presbiterio, piuttosto che buttarmi a capofitto da solo nell’attività pastorale. Il mostro dell’individualismo si riproduce anche nel paternalismo: agire da solo per gli altri, anziché operare con gli altri per tutti. Così si arriva perfino a “fare da padroni sulla fede degli altri”, anziché essere “collaboratori della loro gioia” (cfr 2Cor 1,24).
Convertirsi nel ministero significa anche vigilare per non cadere in altre pericolose tentazioni. Penso alla tentazione del borghesismo, che ci porta ad ambire la vita più comoda possibile, con tutti i confort più appetibili, con tutti i mezzi più sofisticati per coltivare i nostri hobby, per toglierci gli sfizi più allettanti. Così si va in letargo: addio radicalità evangelica, addio preghiera, addio missione, addio spirito di servizio, addio apertura del cuore ai poveri. A quel punto il Signore, per svegliarci dal torpore, non può più ricorrere alle carezze; è costretto a strapazzarci con gli scossoni. Di borghesismo si può morire o, perlomeno, ci si può ammalare seriamente: vedi, ad esempio, dipendenze, manie e fobie varie. L’ordine sacro non ci rende immuni da questi rischi letali.
Convertirsi nel ministero significa esercitarsi per non cadere nella ricerca del successo a tutti i costi, in tutti i casi, con tutti i mezzi. Non pensiamo solo all’idolo del carrierismo, che ci porta a valutare un incarico o una missione in termini di promozione o retrocessione, di sorpasso o retromarcia. Pensiamo anche alle varie forme di protagonismo, quella smania che insegue spasmodicamente la ricerca del successo pastorale e ingrandisce la portata dei dati quantitativi e più appariscenti: i numeri, gli applausi, il clima da stadio, il rimbalzo sui media. Ma pensiamo pure alle gratificazioni più semplici e interiori, come l’affetto e la stima della gente, la constatazione di buoni frutti nati nel proprio campo, come ad esempio vocazioni, conversioni, nascita di gruppi di preghiera e altro ancora. Qui il rischio è più sottile, ma non meno insidioso: quello di confondere l’efficacia con l’efficienza, l’importante con l’urgente, i mezzi o i frutti con il fine, Dio con le opere di Dio. Allora si rischia di cadere nel culto morboso della propria immagine, nell’ansia da prestazione, nello stress da pastorale. Così si finisce non per ‘ardere’, ma per ‘bruciarsi’.
Convertirsi nel ministero vuol dire guardarsi anche dalla tentazione del fatalismo. Come quando si dice o si pensa: Ma qui non c’è più niente da fare. Oppure: Io sono fatto così. O ancora: Ormai la gente non ci dà più retta. E in questo modo ci si autoesonera da ogni proposito e impegno di conversione. Alla fine il cuore si indurisce, non udiamo più la ‘sua’ voce, e non “manteniamo più salda fino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio” (Ebr 3,14).
L’unica terapia efficace per queste inquietanti patologie è quella di “tenere fisso lo sguardo su Gesù crocifisso, che ha dato origine alla (nostra) fede e la porta a compimento” (Ebr 12,2). E’ Gesù in croce che ci permette di vincere il dubbio, da cui spesso siamo sfiorati: quello per cui pensiamo che sarebbe meglio avere a che fare con un Dio che agisse secondo criteri retributivi. Accetteremmo di buon grado una sua punizione – magari non eccessiva – pur di avere il diritto di dire che “abbiamo pareggiato il conto”, “abbiamo saldato il debito”, e quindi non gli dobbiamo più nulla. Non è così: la croce ci ricorda che è stato Gesù ad “annullare il documento scritto contro di noi, inchiodandolo alla croce” (Col 2,14). Ci dobbiamo convertire a un Dio che è ‘implacabilmente’ misericordioso e che non rinuncia mai alla sua prerogativa di essere Padre di tenerezza e di viscerale misericordia.
4. L’11 novembre 1215, il papa Innocenzo III aprì il concilio ecumenico Lateranense IV, tenendo un memorabile discorso. Partì dalle parole di Gesù, che mettendosi a tavola prima di morire, disse: “Ho ardentemente desiderato fare questa Pasqua con voi” (cfr Lc 22,15). Pasqua – spiegò il papa – significa passaggio. Innocenzo, che aveva indetto il concilio per rispondere all’urgente bisogno che aveva la Chiesa di riforma – una riforma innanzitutto morale, in capite et in membris – insisteva nel suo discorso in particolare sul passaggio spirituale – dal peccato alla santità – e sulla riforma dei costumi, specialmente del clero, che non era certamente più santo di noi, preti di oggi: vedi orribili delitti di concubinato, simonia e altri ancora. Anzi, Il papa diceva di voler passare lui stesso attraverso tutta la Chiesa, come l’uomo vestito di lino con una borsa di scriba al fianco, di cui parla il profeta Ezechiele (cfr 9,1ss), per segnare il Tau penitenziale sulla fronte degli uomini che, come lui, piangevano e si affliggevano per gli abomini che si commettevano fuori e dentro la Chiesa.
Secondo la tradizione, confuso tra la folla, nella basilica del Laterano c’era un poverello: era Francesco d’Assisi. Sta di fatto che Francesco raccolse l’ardente desiderio del papa e lo fece suo. Ritornando tra i suoi, da quel giorno cominciò a predicare, ancora più intensamente di prima, la penitenza e la conversione, e cominciò a segnare un Tau sulla fronte di coloro che si convertivano sinceramente a Cristo. Fu questa la ‘crociata’ che Francesco scelse per sé: segnare la croce non sulle vesti o sulle armi, per combattere gli ‘infedeli’, ma segnarla nel cuore, suo e dei fratelli, per eliminare l’infedeltà del popolo di Dio. Volle essere un umile strumento a servizio della Chiesa e dei suoi pastori, per realizzare il rinnovamento voluto dal concilio ecumenico del suo tempo.
Da qualche giorno, a quasi otto secoli esatti da quel concilio, il Signore ci ha mandato un papa che ha scelto il nome di Francesco come nome di missione: quella di riprendere la riforma della Chiesa, voluta dal concilio ecumenico Vaticano II. Tutti abbiamo accolto il nuovo vescovo di Roma con entusiasmo. Ma aiutiamoci ed aiutiamo i nostri fedeli a ricordare che l’entusiasmo non coincide con la conversione. Sosteniamo Papa Francesco con la nostra personale conversione e con la riforma della nostra vita. E con la gioia di essere preti.
Perché abbiamo bisogno di preti più contenti. Tutti. A cominciare proprio da noi preti.
Rimini, Basilica Cattedrale, 27 marzo 2013
+ Francesco Lambiasi