Omelia tenuta dal Vescovo per la solennità della dedicazione della Cattedrale e per l’ammissione agli ordini sacri di Filippo Rosetti ed Eugenio Savino
Anche Dio ha sete. “Ha sete che si abbia sete di lui”. Dio è amore e, se il sole non può fare a meno di risplendere, se il fuoco non può fare a meno di ardere, forse che Dio Amore potrà fare a meno di amare e di bramare di essere riamato? Niente affatto. Noi sappiamo che quando ha per soggetto Dio, il verbo amare si può coniugare solo all’infinito – poiché Dio ama “da Dio”, e dunque il suo amore è un infinito amare – ma questo infinito non va declinato solo all’attivo bensì anche al passivo. In altre parole, l’amore da parte di Dio è un infinito donare amore a noi, e un altrettanto infinito mendicare amore da noi. Il tutto, con una noticina che vale un trattato: Dio non ha sete del nostro amore per essere felice, ma per farci felici.
1. Questa sete di dare e di ricevere amore il Figlio di Dio l’ha sperimentata con cuore d’uomo, l’ha vissuta con sensibilità d’uomo, l’ha patita con una tenace arsura bruciante, quando dopo il battesimo al Giordano ha cominciato a percorrere le strade polverose della Galilea, andando per città e villaggi a chiamare umili pescatori e pubblici peccatori, a cercare poveri, malati e indemoniati, a salvare pubblicani scomunicati e donne penosamente trattate come cose ‘usa e getta’.
Nel quarto vangelo per ben due volte viene esplicitamente rimarcata questa implacabile sete d’amore, provata da Gesù. La seconda volta è stata all’ora nona del 14 di nisan dell’anno 30. Racconta l’evangelista Giovanni che, dall’alto della croce, ormai agli estremi Gesù gridò: “Ho sete”, e gli diedero da bere una spugna imbevuta di aceto. Ricordiamo quanto a quel grido sia stata sensibile Madre Teresa di Calcutta. Era la fatidica sera del 10 settembre 1946, quando, mentre era in treno diretta alla sede degli esercizi spirituali, durante tutta la notte continuò a martellarle nella testa il grido dolente di Gesù in croce: “Ho sete!”. Un misterioso richiamo che col passare delle ore si fece sempre più chiaro e pressante: lei doveva lasciare il suo confortevole convento per andare a servire i più poveri dei poveri. Quel genere di persone che non sono niente, che vivono ai margini di tutto, il mondo dei derelitti che ogni giorno agonizzavano sui marciapiedi di Calcutta, senza neppure la dignità di poter morire in pace. Per suor Teresa quella fu l’ora della “seconda chiamata”: qualche tempo dopo avrebbe lasciato il convento di Entally con cinque rupie in tasca e il sari orlato di azzurro delle indiane più povere, dopo quasi 20 anni trascorsi nella congregazione delle Suore di Loreto. La piccola Gonxha di Skopje diventava Madre Teresa e iniziava da quel momento la sua corsa da gigante.
La prima volta che Giovanni registra la sete ardente di Gesù, lo fa quasi con meticolosa precisione: “era circa mezzogiorno”, durante una giornata di spossante viaggio attraverso la Samaria. Il rabbi galileo si trova affaticato e stanco presso il pozzo di Giacobbe. Ecco, improvvisamente si staglia in controluce, sotto un cielo allagato da un sole abbagliante, la figura di una Samaritana che viene a fare provvista d’acqua. Finora ha cercato di spegnere la sua sete d’amore attingendo a cisterne screpolate, andando a mendicare tenerezza da un amore all’altro. Ma prima un uomo, poi un altro fino all’attuale, il sesto, le hanno fornito solo acqua melmosa, con il retrogusto di un amaro stomachevole. Ma chi è ora costui che chiede da bere e promette di dissetare? Di richieste e di promesse del genere quella donna infelice, assetata d’amore, ne aveva sentite tante, troppe, ma erano venute tutte da sguardi famelici, da pensieri obliqui, da cuori torbidi e voraci. Quel giorno invece la Samaritana incontrò il primo uomo che le chiedeva solo un sorso d’acqua, e le dava in cambio l’acqua della vita. Quel giorno la sventurata riuscì finalmente a placare la sete ardente del suo cuore: nel rabbi Gesù per la prima volta incontrò la tenerezza, conobbe la felicità. Così cominciava per lei una vita nuova: non doveva più andare a comprarsi il favore divino nel santuario degli antenati, sul monte Garizim. Non doveva neanche recarsi a Gerusalemme, sul monte Sion, a piatire la compassione di una divinità straniera, nel santuario di un popolo cordialmente ostile ai Samaritani. Finalmente si inaugurava per quella donna l’alba della libertà: si deve adorare il Padre, ma solo in spirito e verità, aveva detto quel misterioso profeta (che non fosse proprio lui addirittura il Messia?).
2. A questo punto viene da chiedersi: se i veri adoratori di Dio non sono più tenuti ormai a frequentare templi di pietra, allora perché i discepoli di Cristo, appena hanno potuto, si sono messi a costruire chiese, a innalzare splendidi santuari e sontuose cattedrali? La risposta è la seguente: perché, da quando si è attendato in mezzo a noi, Cristo non se ne è più andato e continua a rendersi reperibile nella santa assemblea dei suoi discepoli. Il culto in spirito e verità, infatti, si oppone a culto esteriore e formale, non a culto esistenziale: anzi è proprio questo il vero culto spirituale, gradito a Dio, poiché è strettamente aderente alla vita e, per essere integralmente umano, non può fare a meno di riti, di segni e di simboli e finanche di strutture. In buona sostanza, non può fare a meno di una casa, di un tempio o chiesa che si voglia chiamare.’
Per farcene una ragione dobbiamo ricordare che nell’Antico Testamento era il tempio a ‘fare’ in senso proprio il sacrificio: uccidere un animale fuori dell’area sacra non era fare un sacrificio, ma quando la stessa cosa si faceva secondo le rubriche rituali all’interno del recinto sacro, allora veniva considerata un sacrificio a Dio. Invece per noi, nuovo Israele, popolo della nuova ed eterna alleanza è il sacrificio che costituisce il tempio. E’ la divina liturgia, è la santa eucaristia, celebrata da una comunità cristiana, da una Chiesa viva, a fare di un edificio sacro una vera chiesa. Il tempio materiale rimanda alla realtà spirituale della comunità cristiana. Le chiese costruite dai cristiani hanno senso unicamente perché rimandano alla Chiesa, corpo di Cristo, animata dallo Spirito. Celebrare l’anniversario della dedicazione di una chiesa è sottolineare che continua, in un luogo preciso, una storia d’amore e di tenerezza che comprende tutta la comunità che lì si raduna. Del resto che cosa sarebbe una chiesa senza una comunità che lo abita e lo anima? una casa vuota, al massimo un freddo museo, che, per quanto interessante, sarebbe ormai privato del suo senso originale. Ma d’altra parte che cosa sarebbe una comunità cristiana che non esprimesse più in maniera visibile la vita profonda di una concreta comunità di discepoli e testimoni di Cristo?
Nel libro del profeta Ezechiele (al cap. 47) si legge che il profeta fu condotto in spirito all’ingresso del tempio di Gerusalemme e vide che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente. I padri della Chiesa interpretano questa visione in senso spirituale: quell’acqua della vita è l’acqua che sgorga dal fianco squarciato del Crocifisso e porta vita e salvezza all’umanità redenta. E’ l’acqua dello Spirito che, nella colletta iniziale abbiamo chiesto a Dio Padre con queste parole: “Effondi sulla chiesa il tuo santo Spirito, perché edifichi il popolo dei credenti che formano la Gerusalemme del cielo”.
Quanto fin qui affermato è ancor più vero per la cattedrale. Leggiamo nel Vaticano II:
“Bisogna che tutti diano la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi intorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale: convinti che la principale manifestazione della chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dal suo presbiterio e dai suoi ministri” (SC 41).
3. In questa solenne liturgia si incastona il vostro sì, carissimi Eugenio e Filippo. Questo sì dice la definizione di un discernimento riguardo all’autenticità della vostra vocazione e dice pure il proposito di proseguire il cammino formativo verso il presbiterato. Questo vostro sì è un messaggio.
Innanzitutto per i vostri coetanei. In questa cultura della distrazione che spesso seduce e disorienta molti giovani, il vostro sì afferma la cultura della vocazione, per cui la vita non è né caso fortuito né cieco destino, ma è disegno pieno d’amore proposto alla nostra spesso capricciosa ma sempre inalienabile libertà. La vita non è avventura solitaria; non è neanche una più o meno piacevole crociera che veleggia tranquilla verso il porto della felicità. La vita è una storia d’amore, che se genera dedizione gratuita e appassionato servizio, conosce l’appagamento del centuplo evangelico.
Il vostro sì è un messaggio per la nostra pastorale, che se non arriva a trafiggere il cuore e a porre un giovane davanti alla domanda strategica e drammatica – “che cosa devo fare nella mia vita?” – non si può dire pastorale cristiana, ma si autoriduce a innocua ipotesi di lavoro.
Il vostro sì è un messaggio per le nostre comunità, che se non vivono la dinamica del pane spezzato, non possono celebrare la vita come dono ricevuto, e quindi non possono educare a spenderla come dono da condividere per salvare la vita degli altri.
Ecco allora il mio augurio: che voi, Eugenio e Filippo, possiate ogni giorno della vostra vita ascoltare il grido di Gesù: “Ho sete” e rispondergli come Teresa di Calcutta, come don Oreste Benzi, a cui è intitolato il nostro seminario. Che ogni giorno possiate spegnere la vostra sete d’amore al fiume di acqua viva che sgorga dal cuore trafitto del Crocifisso-Risorto. Che la vostra vita diventi una fontana zampillante per la sete di tanti fratelli e sorelle che incrocerete sul vostro cammino.
Che la vostra vita diventi il canto di una sorgente…
Rimini, Basilica Cattedrale, 22 settembre 2012
+ Francesco Lambiasi