Omelia del Vescovo alla Messa delle Palme
Il Messia sconfitto: forse potrebbe essere questo il titolo più indovinato che potremmo apporre al vangelo di Marco. Le due parole che lo compongono, formano un ossimoro urticante agli orecchi non solo di Caifa e dei sommi sacerdoti, ma anche di Pietro e compagni, anche di Pilato e dei soldati romani, anche di scribi e farisei, anche della folla delusa che appena qualche giorno prima aveva riservato al rabbi Galileo un’accoglienza trionfale nella città santa. In quelle due parole – Messia sconfitto – traspare il mistero di Cristo: la croce e la gloria; una via di morte, ma che in realtà è la via della vita; una strategia che sembra sbaragliata, ma che invece risulta vittoriosa e invincibile.
1. Il racconto della passione secondo Marco occupa uno spazio molto ampio e forma un pezzo unitario costruito con fine acutezza. Lo possiamo osservare da tre angolature diverse e convergenti.
La prima è che la logica ‘illogica’ della croce non compare improvvisamente qui nel racconto della passione, ma ha guidato l’intera esistenza di Gesù. La passione, in altre parole, è strettamente congiunta a tutto il blocco delle pagine precedenti, come risalta dal racconto introduttivo, e cioè l’istituzione dell’eucaristia. Intenzionalmente posto all’inizio della storia della passione, ne costituisce la principale chiave interpretativa. Nella narrazione della passione, infatti, veniamo a sapere che cosa Gesù ha sofferto, ma non perché ha sofferto. Questo ci è detto, appunto, nel racconto della cena: Gesù ha sofferto per noi. Il gesto eucaristico, con le parole che l’accompagnano, indica la via di Gesù come una radicale dedizione: la sua è stata una vita offerta, una esistenza radicalmente, irreversibilmente donata. Con due precisazioni. Quella di Gesù è una vita donata per tutti, anche per Giuda che lo tradisce, anche per Pietro che sta per rinnegarlo, anche per i compagni che stanno per abbandonarlo, ma anche per le moltitudini umane di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Inoltre quella di Gesù è una donazione ostinata e incondizionata: rifiutato da noi, Gesù muore per noi, per tutti e per ciascuno di noi. Se questo è il senso della cena, allora è chiaro che l’eucaristia non è un gesto isolato nella storia di Gesù. Piuttosto è il gesto che svela tutta la verità della sua vita, e anticipa la verità della passione che sta per iniziare. Lo aveva detto lui stesso qualche giorno prima, sulla strada che lo portava a Gerusalemme: il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire (come invece il mondo si aspettava), ma a servire, e a consegnare la sua vita, fino al completo dono di sé (cfr Mc 10,45). L’eucaristia sta sul crinale di ciò che precede (l’attività pubblica) e di ciò che segue (la passione) e ne illumina i due versanti. E sta lì a dire che tutta la vita di Gesù fu servizio e croce. Fu amore, tutto amore, solo e sempre amore, e totale dono di sé.
2. C’è una seconda prospettiva da cui guardare la vicenda della passione: l’evangelista Marco intreccia con indovinata misura due linee nel suo racconto. Da una parte ricostruisce la passione nel suo svolgersi esterno: ciò che viene compiuto contro Gesù. Dall’altra, rilegge la passione nel suo svolgersi interiore: ciò che si compie dentro Gesù, nel suo cuore, con le sue disposizioni profonde, con le sue intime reazioni, espresse nel linguaggio dell’amore, con atteggiamenti intensi, con parole indimenticabili e gesti concreti. Se ad uno sguardo esteriore Gesù appare passivo, abbandonato fino ad essere “condotto” e “consegnato” come un oggetto “usa e getta”, fino a venire immobilizzato sulla croce, interiormente invece è attivissimo, fino ad ergersi a soggetto e protagonista dell’intera vicenda. Ancora una volta tutto questo viene anticipato nella liturgia della santa cena, dove si legge che nella notte in cui “veniva tradito”, Gesù si è “offerto liberamente alla sua passione”.
Ma ci sono – ed è la terza visuale – altre due linee che si incrociano, proprio come i due pali della croce. Da una parte vi è la linea orizzontale, con il concatenamento fatale del comportamento di uomini chiusi nel loro peccato: le azioni dei nemici di Gesù, accecati dall’odio, traditori della Legge che dicono, invece, di difendere, per meglio assicurare la disfatta di colui che rifiutano. Ci sono i gesti dei testimoni – Pilato, la folla – incatenati dalla paura e dall’interesse personale. Ci sono gli atteggiamenti degli stessi apostoli che, nonostante il loro attaccamento al Cristo, lo abbandonano e lo rinnegano. La logica del peccato funziona come una macchina da guerra perfettamente oleata. Dall’altra parte – è il codice verticale – vi è l’opera divina, che utilizza questa spietata logica di morte per distruggerla mediante l’affermazione trionfatrice dell’amore.
3. Alla fine del vangelo della croce, resta una domanda: da che parte stiamo noi di fronte al Crocifisso? Sul termine del suo racconto, l’evangelista Marco ci riserva una doppia sorpresa: l’unico, in tutto il vangelo, a riconoscere in Gesù crocifisso il Figlio di Dio, è il centurione, uno sconosciuto ufficiale romano, un pagano, idolatra e forse miscredente. Certamente è il meno attrezzato per credere in quel disgraziato appeso al patibolo, maledetto come uno scomunicato dai giudei e maltrattato come un pagliaccio dai suoi soldati. Eppure è proprio lui il primo a scoprire la verità e a riconoscere il Figlio di Dio. No, non è stato un giudeo, e nemmeno un discepolo ad esclamare con una nota di meravigliata sorpresa e al tempo stesso di fiera certezza: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”. Ma ciò che sbalordisce ancora di più è che il centurione arriva a questo insuperabile atto di fede non perché abbia assistito ad una rivincita strabiliante del Crocifisso contro i suoi nemici, non perché sia stato allibito spettatore dello sterminio fulminante di mandanti e carnefici, non perché abbia visto quel “re dei giudei” scendere in extremis, illeso e baldanzoso, dalla croce, ma semplicemente “avendolo visto spirare in quel modo” (Mc 15,39). Ai piedi della croce si scontrano due modi di credere, e Gesù ne è la discriminante: da una parte, c’è chi è disposto a credere solo se Gesù scende dalla croce e salva se stesso; dall’altra, chi crede proprio perché Gesù rimane sulla croce e dona la vita per amore.
Torniamo alla domanda: e noi da che parte stiamo? La risposta non si trova nei riti tranquillizzanti che compiamo, nelle preghiere standardizzate che recitiamo, nei rami d’ulivo che agitiamo o nei salmi di giubilo che cinguettiamo, ma sta nella vita che viviamo. Se la nostra vita desta stupore e sorpresa in chi ci vede e ci conosce, se provoca in quanti incontriamo domande sospese, del tipo: “Ma perché questo cristiano – amico o collega o vicino di casa – si comporta così? Perché non pensa solo ai soldi e alla carriera? Perché dedica tempo ed energie al bene degli altri? Perché è capace di gratuità e di perdono? Perché compie il suo dovere senza cercare applausi e gratifiche? Perché ha il coraggio di non seguire l’andazzo generale? Perché non pensa come pensan tutti e non fa come fan tutti? Perché è leale, fedele, generoso anche a costo di rimetterci? Perché non si vergogna del vangelo in cui crede e della fede che professa? Perché, anche quando le cose gli vanno storte, vive in una pace invidiabile?”. Ecco, se la nostra vita provoca domande del genere, allora è segno che stiamo dalla parte del centurione romano, non di Caifa, di Giuda, di Pietro o di Pilato.
Allora è segno che non giochiamo a fare Pasqua, ma viviamo la rivoluzione della Pasqua.
+ Francesco Lambiasi
Rimini, Basilica Cattedrale, 29 marzo 2015