Questa è la mia prima celebrazione di San Gaudenzo, patrono della città di Rimini e della nostra Diocesi. Sono emozionato perché la figura del vescovo, da Gaudenzo a Nicolò, passando per monsignor Francesco che è qui con noi, si ricollega agli apostoli e quindi a Gesù, realmente vissuto 2000 anni fa, morto, risorto, vivente in mezzo a noi, attraverso una lunga catena di fedeltà ben più ampia di quella composta da noi vescovi e che abbraccia un’intera comunità cristiana.
La festa di San Gaudenzo di quest’anno ha purtroppo i tetri colori di due guerre che, in Ucraina, in Russia, in Israele e in Palestina, stanno insanguinando il mondo e spezzando i nostri cuori. Molti sono i conflitti che purtroppo si stanno silenziosamente consumando in altre parti del pianeta, ma queste due guerre le sentiamo particolarmente nostri a motivo anche delle terribili testimonianze che i media ci offrono. Sono contento che dopo la liturgia vivremo insieme, con chi lo vorrà, un ulteriore momento di preghiera per la pace in Medio Oriente e nel mondo.
Mi è stato detto che, in occasione della festa del santo patrono, il vescovo propone alcune riflessioni pastorali un po’ più articolate del solito circa la sua visione della Diocesi. Proverò a dire qualcosa; confido nello Spirito Santo che, in questo tempo sinodale, sono certo sta aiutando in modo particolare la Chiesa. Premetto che queste mie considerazioni sono frutto di un buon ascolto che, correndo di qua e di là, in bici, in moto, talvolta in auto, in questi quasi nove mesi da riminese sono riuscito a vivere. Grazie di cuore a chi mi ha aiutato e invitato.
Forse qualcuno si sarà accorto che il Vangelo proclamato, quello dei discepoli di Emmaus, non è il Vangelo proprio della solennità di San Gaudenzo; è il Vangelo che la Conferenza Episcopale Italiana ha scelto per questo anno sinodale. Gesù cammina con noi e con il discepolo Cleopa. Cleopa e il secondo discepolo, quello del quale non si conosce il nome e che quindi potrei essere io, noi, sono tristi, delusi, amareggiati. “Speravano che qualcosa cambiasse, invece sta andando tutto a rotoli, un disastro, un fallimento”. Gesù risorto invece cammina con loro anche se non lo riconoscono, dialoga con loro, scaldando il cuore, li aiuta a ragionare a partire dalle scritture, dona loro tempo, resta con loro fino a sera, non ha fretta. Questo è un invito a non farsi prendere dalla paura, dalla delusione, dall’ansia, dallo stress; Gesù cammina con noi, sempre e per sempre. I sentimenti pessimisti non sono cristiani, non vengono da Gesù e dal suo Spirito.
Vorrei iniziare e concludere questa omelia con due testi della spiritualità e della liturgia noti a molti:
“Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace», non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.”
Si tratta di una preghiera rivolta a Gesù, non al Padre come nel resto della santa Messa, che il sacerdote recita dopo il Padre Nostro introducendo lo scambio di pace e l’Agnello di Dio; una bella preghiera che mi tocca il cuore.
Il Papa spesso nelle sue omelie utilizza tre parole sintetiche nella speranza che siano ricordate. Nella consapevolezza del mio ruolo inferiore, io ne uso due. La prima parola è preghiera. Questo tempo è certamente un tempo di cambiamento d’epoca per tanti motivi. L’avvento di Internet ha moltiplicato opportunità e rischi economici, educativi, ecologici, politici, esistenziali. Il tema della produttività, della velocità, dell’efficienza, dello sviluppo tecnologico perché siano davvero al servizio dell’uomo, di ogni uomo, necessitano di una luce particolare. Tutti siamo partecipi, attori di questo cambiamento d’epoca, di stile di vita, in casa, in fabbrica, nella politica, nella società, nelle parrocchie, nelle associazioni, sulla strada, nelle relazioni interpersonali. Per non essere travolti da un progresso che rischia di non essere al servizio dell’uomo, della felicità di ogni uomo, ma di fagocitarlo tristemente, il primo passo da fare, per chi è credente, e anche per chi non lo è, è pregare. Pregare è fermarsi e presentare a Dio i nostri problemi, le nostre preoccupazioni, i nostri casi, il mondo. Pregare è fare silenzio e scendere nel profondo di noi stessi, non rimanere in superficie, è sentire i nostri cuori che sono fatti per amare e non per litigare o per correre. Pregare è ascoltare la voce dello Spirito che ci fa desiderare cose piccole e grandi e ci assicura di essere al nostro fianco. Pregare non è cercare la perfezione interiore bensì dimenticarsi dei nostri errori. “Signore, non guardare i nostri peccati” che generano sensi di colpa e paure. Pregare è sentire la presenza di un Padre nella nostra vita e che ci vuole felici. Abbà, babbo, è il termine familiare che ci viene dalle scritture. Pregare e fare silenzio sui nostri problemi e poter così sentire l’urlo di sofferenza del mondo, di chi è solo, malato, abbandonato e non ha nulla. La preghiera è un gesto personale, unico, di cui tutti abbiamo bisogno. Nel racconto dei discepoli di Emmaus, è incredibile, Cleopa e l’amico non riconoscono Gesù, avevano chiuso gli occhi del cuore, rapiti dalle loro aspettative. Gesù risorto scalda il cuore dei due che non lo riconoscono attraverso le Scritture. La Parola di Dio è una grande fonte per la preghiera. È bello pregare da soli ed è bello anche pregare insieme: l’Eucarestia domenicale, fonte e culmine di tutta la vita cristiana, la liturgia delle ore, le lodi e i vespri che in molte comunità cristiane si celebrano, l’adorazione, il Santo Rosario e tante altre forme di preghiera. Sono occasioni belle. In questo tempo di guerra in cui chiediamo con insistenza la pace, il dialogo, la riconciliazione, sarei felice se scoprissimo tutti il Sacramento della Riconciliazione, del perdono, della rinascita, della confessione, della pace, della vita nuova. Mi piacerebbe che le nostre parrocchie fossero prima di tutto dei luoghi di preghiera, dove si impara a pregare – “Maestro insegnaci a pregare” hanno chiesto gli apostoli Gesù -, luoghi dove si prega insieme. Anche le nostre case dovrebbero diventare maggiormente degli spazi di preghiera, luoghi in cui si prega e si ringrazia prima di sedersi a tavola, nel ricordo di chi ha poco in tavola, di chi non ha la possibilità di scegliere cosa mangiare, di chi si deve nutrire con il cibo dato da altri, senza la possibilità di guadagnarselo. Sarebbe bello che la parola di Dio ascoltata la domenica diventasse vita e quella della domenica successiva, letta insieme in parrocchia, venisse anche preparata insieme, a casa, nei gruppi, con i sacerdoti, i diaconi, i lettori istituiti.
La seconda parola desidero che lasciare a me e a voi e la parola unità:
“e donale unità e pace secondo la tua volontà”.
L’unità della sua famiglia, del popolo di Dio, dell’umanità è il grande desiderio di Gesù. Gesù chiede l’unità a Dio Padre poco prima di andare a morire. “Ti prego, Padre, che siano una cosa sola come io e Te siamo una cosa sola. Custodiscili dal maligno che invece è divisione. Che siano una cosa sola perché il mondo creda che Tu mi hai mandato.” Essere uniti, dialogare, fare le cose insieme, amarsi, stimarsi, lavorare insieme per il bene non è una cosa semplice. Gesù assicura che l’unità avrà un tale bellezza che renderà visibile Dio. Unità con chi ha bisogno, con chi è straniero, nelle famiglie, fra Associazioni, nella politica, nella società. Unità nel bene ovviamente, con opinioni diverse in unità. Il cammino dell’unità, della comunione è il cammino del Sinodo. Noi siamo già uniti nella nostra natura umana e chi è cristiano sa che siamo quindi uniti con Gesù. Se ci dividiamo neghiamo la nostra natura e ci distruggiamo; la felicità sarà sostituita dalla tristezza. Gesù ci rende particolarmente uniti a lui quando ascoltiamo e viviamo la sua parola e ci nutriamo del suo corpo nella celebrazione dell’Eucaristia.
Qualche giorno fa un sacerdote mi ha chiesto quale fosse, a mio avviso, un ambito formativo su cui la nostra diocesi dovrebbe impegnarsi. La domanda era un po’ birichina perché l’anno pastorale che stiamo iniziando è proprio l’anno sapienziale del cammino sinodale in cui dovremo interrogarci, e non solo il vescovo, e fare discernimento proprio su quale tipo di formazione necessitiamo in questa fase storica. La risposta, più o meno precisa, a questa domanda spero arriverà a fine anno, al termine dei lavori sinodali. Mi sento tuttavia di indicare un aspetto su cui tutti dovremmo crescere e fermarci: la capacità di dialogare, di cercare insieme il bene, di parlare, di ascoltare, di meditare in silenzio, di cambiare opinione, di semplificare il nostro pensiero, di cercare l’essenziale. Formazione al dialogo, all’unità, alla pace, al perdono evitando il conflitto, facendo prevalere il bene e l’amore.
Desidero a questo punto proporre due attenzioni che vorrei fossero al centro della nostra vita pastorale.
La prima è quella riguardante le persone che stanno attraversando un periodo difficile, delicato o di difficoltà materiale o spirituale: i malati, gli anziani, gli stranieri, le persone abbandonate, i piccoli senza famiglia, i carcerati, chi è caduto in una dipendenza, chi non ha casa, chi ha problemi psichiatrici e tanti altri. Questi nostri fratelli e sorelle devono avere tutti delle nostre attenzioni e sono certo, anche partire dalla mia esperienza, che essi diventeranno dei maestri di vita e ci aiuteranno ad essere più umani, più cristiani e più felici. Vogliamo essere vicini a tutte quelle famiglie all’interno delle quali c’è una situazione di questo tipo.
Una seconda attenzione è quella per i giovani. La parola giovane deriva dalla parola latina di ‘iuvare’ che significa aiutare. I giovani sono coloro che possono aiutare la società, il mondo, la Chiesa, il bene. I giovani hanno forza, entusiasmo, intelligenza, speranza per il lavoro futuro, creatività. Voler bene ai giovani vuol dire camminare con i giovani ed offrire loro la possibilità di essere utili a servire il mondo. I giovani possono essere educatori dei propri fratelli e sorelle più piccoli, possono aiutare i ragazzi a studiare insieme, possono tenere compagnia agli anziani (nelle residenze talvolta basta poco, un canto e una chitarra, un po’ di vicinanza e amicizia, di prossimità), possono organizzare feste, viaggi, avventure con i propri coetanei, possono animare le liturgie, cantando e suonando, imboccare i malati, spingere la carrozzella di un disabile, raccogliere cibo e servire nelle mense per chi vive per strada, creare attività lavorative, progettare tornei e feste musicali, cucinare cene, allestire un campo o un centro estivo o invernale, trascorrere una giornata con amici che si sono isolati… 1000 cose, anche piccole o forse anche grandi, tante luci accese in grado di illuminare il bene. Gesù si fidò molto dei giovani. Ad un giovane, l’apostolo Giovanni, affido sua mamma, la Madonna. Alla Madonna, immagine della Chiesa, affido Giovanni, un giovane.
Concludo leggendo una famosa preghiera allo Spirito Santo: sia Lui a guidarci, a piegarci, scaldare i nostri cuori alcune volte distratti e gelidi all’inizio di questo anno pastorale…
Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
Vieni, padre dei poveri,
vieni; datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.
O luce beatissima,
invadi nell’intimo
il cuore dei tuoi fedeli.
Senza la tua forza,
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò ch’è sviato.
Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna. Amen.