Lettera sulla speranza, GMG Diocesana – 4 aprile 2009
– Ai Giovani
– e p.c. a Genitori, Educatori, Insegnanti
Care ragazze, cari ragazzi, carissimi amici,
la notizia è di qualche anno fa, ma torna implacabilmente a percuotermi nel cuore, ogni volta che mi investe una storia analoga. Alessia, 15 anni, suicida in un bagno della stazione Ostiense, di Roma: in tasca a un paio di jeans griffati le trovarono un biglietto indirizzato ai genitori. Vi aveva scritto: «Mi avete dato il necessario e anche il superfluo. Mi è mancato l’indispensabile». Alessia aveva avuto tanto dalla vita: dagli orsi di peluche alla playstation, dalla piscina alla danza, dal corso d’inglese personalizzato alla chirurgia plastica per rifarsi il seno. Aveva avuto di tutto, di più… Ma le era venuto a mancare il senso del tutto. Non è proprio questo – il senso del vivere – l’indispensabile, senza il quale tutto, anche il superfluo e perfino il necessario, diventa incolore, inodore, insapore?
Una società obesa e depressa — Non sono catastrofista, ma il paesaggio si presenta tutt’altro che gradevole. Mi appare piuttosto desolato e alquanto deprimente. Dappertutto si registra un… disperato bisogno di speranza. Dopo l’11 settembre ’01, forse l’immagine più azzeccata di questa stagione della storia è quella di un aereo senza pilota. I passeggeri scoprono con orrore che la cabina di comando è vuota e che non c’è alcun modo di azionare il pilota automatico; non si sa quindi dove l’aereo è diretto, dove atterrerà, chi deve scegliere l’aeroporto e se ci sono regole per permettere ai passeggeri di contribuire alla sicurezza dell’arrivo.
Sembra aver ragione chi fissa il tratto distintivo della nostra vicenda nell’aggettivo “liquido”. Si parla di modernità liquida, di amore liquido, vita liquida. Liquido: qualcosa che sfugge tra le dita, come l’acqua. Dopo la modernità “solida” con i suoi dogmi, i suoi profeti, con i grandi castelli ideologici (positivismo, nazismo, marxismo) si affaccia oggi, nel nostro ricco Occidente, la modernità “liquida” in cui nulla è più fisso, nulla è certo, tutto è sfuggente, provvisorio, inafferrabile. Siamo dei nomadi globali, sperduti in una società individualizzata: sei miliardi di solitari nel mercato del villaggio mondiale, tristi e impauriti in un mondo fluttuante, senza più legami, senza più certezze e punti di riferimento, chiusi ognuno nel proprio involucro, disintegrati al proprio interno… Non più pellegrini che sanno da dove sono partiti e dove stanno andando, ma dei girovaghi o vagabondi, senza meta e senza strada, senza passato e senza futuro.
In una società liquida non occorre sacrificarsi e immolarsi, perché non c’è nessuna trincea da difendere, nessuna bandiera per cui morire. Non servono né eroi né martiri. Al loro posto balzano sulla ribalta i nuovi divi della TV, della canzone, dello sport, i big della politica o della finanza.
Un fiore seducente e allucinogeno: il narcisismo — Nella nostra civiltà stregata dal mito dell’apparire, nei prati artificiali della nostra opulenza fioriscono a bizzeffe i narcisi post-moderni… Riandiamo al mito di Narciso, giovane bellissimo, innamorato della sua avvenenza fino al punto da non comunicare con altri se non con la sua eco, e morto tra le acque gelide di un lago, nel desiderio di abbracciare la propria immagine. Da ricordare il particolare intrigante: narciso è anche il nome del fiore soporifero che intreccia le corone delle divinità dei morti. E da narciso derivano anche termini come “narcosi-narcotico”. Il messaggio è trasparente: l’amore per il proprio Io droga e uccide…
È sotto gli occhi di tutti: in una società dell’immagine, come la nostra, il narcisismo fiorisce vegeto e rigoglioso, e la sua coltivazione si propaga a dismisura. Un conto era nel Cinque-Settecento, quando l’immagine del signorotto era un quadro visibile a pochi privilegiati. Un altro conto è il Narciso di oggi – divo o star che sia – la cui immagine appare su milioni di schermi televisivi, va su rotocalchi ad altissima tiratura. Il “Grande Fratello” può esistere solo oggi, come il fenomeno del divismo.
Narciso è un tipo caratterizzato da un eccessivo investimento sulla propria immagine: è accanitamente autocentrato, assorto in continue fantasie di successo e di superiorità: gli altri non esistono, lui è unico al mondo, e solo lui è perfetto, eccelso, divino, appunto un “divo”. Gli altri, i loro problemi, i loro sentimenti, non lo sfiorano: sono soltanto la platea che deve garantirgli l’applauso, le misere comparse dei suoi show a gogò.
In un momento di grande instabilità sociale, di incertezza etica, di totale black-out spirituale, sorge il bisogno di trovare un’immagine che fondi e rinsaldi l’identità collettiva e personale: l’idolo svolge questa funzione rassicurante. Vero “dio a immagine dell’uomo”, l’idolo protegge dagli infortuni della vita e difende la comunità, liberandola dalla paura e promettendole benessere e felicità. Domanda: non stiamo regredendo verso l’idolatria?
Diamoci ora una guardata dentro: non siamo anche noi, chi più chi meno, affetti da “sindrome di Narciso”? La voglia di apparire, di diventare il “meglio” dell’ufficio o del condominio, di essere i detentori della verità al di là di ogni sospetto, non sono questi i gas tossici che aggrediscono ciascuno di noi? E i bulli non sono in fondo dei prepotenti e rozzi narcisi, che sognano di diventare i “capi del branco”? Facciamo un rapido check-up del nostro “muscolo cardiaco”. Noi adulti, prima dei giovani. Non si sa mai…
Le sabbie mobili del relativismo — Qualche tempo fa su la Repubblica delle donne veniva pubblicata la lettera di una ragazza che rifletteva certi atteggiamenti diffusi nel mondo giovanile d’oggi: la privatizzazione di Dio. Ne cito qualche riga: «C’è chi professa la religione cattolica – scrive la ragazza – c’è chi si affida allo yoga del buddismo; chi preferisce le varie religioni animiste; e chi, come me, non professa alcuna religione. Attenzione: ciò non significa essere atea; significa soltanto non aderire al culto di una qualunque religione “standard”».
Lo dico non per un giovanilismo compiaciuto e deresponsabilizzante, ma perché sono fortemente convinto che l’estratto conto del fenomeno vada servito agli adulti: oggi diversi giovani vogliono farsi una “loro” religione, una religione-fai-da-te. Ne cito una fonte indiscussa: la recente ricerca Iard. Risulta che per molti giovani la credenza in Dio rimane circoscritta alla sfera personale privata, e che il rapporto con Dio è diretto ed esclude ogni dogma, ogni precetto, ogni Chiesa. In fondo, è una religiosità tutta centrata sul proprio vissuto, come unico fondamento dell’esperienza religiosa.
Lo sanno anche i muri: siamo in tempo di relativismo. Il che vuol dire: tutto è relativo, niente è assoluto, non esiste una verità, dobbiamo vivere senza certezze. E allora io-mi-faccio-i-cavoli-miei anche sul fatto religioso, e gli altri la smettano di “rompere”.
Per fortuna voi giovani siete generalmente diffidenti, in tutto questo carnevale di chiacchiere che girano nell’aria. Volete sentire i sì e i no, i pro e i contro. Non accettate verità a busta chiusa.
Bisogna allora ricordare che la prima verità è questa: la verità è oggettiva e universale o non è verità. Non è razionale e nient’affatto logico affermare che ognuno si fa la “sua” verità: per me è vero ciò che mi pare e piace, e per te sarà vero ciò che pare e piace a te. Di questo passo non si arriva al vicolo cieco che è vero tutto e il contrario di tutto? Possiamo allora scambiare il carnefice con la vittima? possiamo mettere sullo stesso piano Hitler e Gandhi? Ragioniamo: è vero o è falso che la pedofilia sia sempre e comunque male? La nostra società riconosce che l’incesto è una pratica inammissibile: è una sorta di “dogma laico”. Lo vogliamo sottoporre a referendum? Esiste una quantità di verità obiettive. Se le gettiamo a mare, non faremo un passo verso la schiavitù? schiavitù della forza, del numero, della razza, dell’egoismo…
Una delle grandi cause della società angosciata e depressa sta in questo: ci siamo autoconsacrati “produttori” della verità. Ma la verità non è nata con noi e non muore con noi: essa ci precede e ci supera. Non ne siamo i padroni assoluti, a nostro uso e consumo. È la verità che ci conquista, ma per liberarci dai nostri pregiudizi e dalla nostra vista troppo corta e spesso deformata.
Ma sperare si può? — Si può sperare in tempi di individualismo, di relativismo, di conformismo? Sì, sperare si deve e si deve perché si può. Non vorrei però imbastire ora un discorso complicato. Parlo in prima persona, vado dritto al dunque, e provo a declinare sette ragioni che mi fanno sperare.
Io spero, perché Gesù è venuto in mezzo a noi. Tutto è partito da quel giorno, sulle rive del Giordano, quando Dio consacrò Gesù di Nazaret con il suo santo Spirito. Gesù si mise allora in cammino per le strade polverose della sua terra, beneficando e risanando quanti erano prigionieri del male. Dio era con lui; lo chiamava “Figlio amatissimo”. E Gesù era sempre con Dio; lo chiamava: “Padre mio”. Il giovane Nazareno amava appassionatamente la vita, quella dei fiori e degli animali, ma soprattutto la vita degli uomini, a partire dagli ultimi, i poveri, ai quali diceva: «Vostro è il regno di Dio». Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli. Ma poi incontrò il rifiuto degli uomini, conobbe il dolore e l’ingiustizia. Alla fine, con iniqua sentenza, lo uccisero appendendolo alla croce. Nessuno dei fondatori delle grandi religioni è morto come lui. Lui è morto innocente, per tutti i peccatori, pregando e perdonando esecutori e mandanti. Solo di lui posso dire anch’io come Paolo: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me». Perché non fidarmi di chi mi ha amato fino al punto di rinunciare alla sua vita per salvare la mia?
Io spero, perché Gesù è risorto e cammina con noi. È l’unico che è tornato vivo dal regno dei morti. A differenza di profeti e grandi uomini del passato, l’erba non ha fatto in tempo a crescere sulla sua tomba. Gesù è vivo, è presente e dopo duemila anni non si è ancora stancato di camminare con noi. Può perciò trasformare ogni atomo del mio dolore in un atomo d’amore più grande, purché io glielo consenta; può cambiare la mia fine in una vita senza fine, purché io lo voglia. Perciò io credo che non esiste male per quanto grave e insopportabile, non si dà situazione per quanto pesante e negativa che non possa essere riscattata da un bene più solido e più grande, e da una gioia infinitamente più abbondante. Perché allora deprimersi e disperare?
Io spero, perché Gesù mi svela il vero volto di Dio. Ieri ho letto dietro a un taxi la scritta: «Dio c’è, ma non sei tu: rilassati”. Gesù mi dice molto, molto di più: «Dio c’è ed è Padre, e tu sei suo figlio: abbandonati”. Dio è Padre, e ci ha creati per amore: non per “fare gli affari suoi” o curare i suoi interessi, ma unicamente per farci felici. Se è Padre, ognuno di noi può dire: ci sono, perché sono stato pensato, voluto, amato e chiamato per nome. Per il fatto stesso che vivo, è segno che è cosa buona e giusta che io viva. Questo Padre, che si prende cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, che conta perfino i capelli del mio capo, si dimenticherà forse di me? Questo Dio Creatore, che fa funzionare stelle e galassie, non farà funzionare anche la mia vita? Se credo in un Dio Padre onnipotente e misericordioso, che può fare infinitamente di più di quanto io possa augurarmi per la mia felicità, perché dovrei aver paura di abbandonarmi al suo amore?
Io spero, perché Gesù mi ha fatto dono del suo Spirito. È proprio vero: ho ricevuto anch’io da lui il suo stesso, identico Spirito, che lotta, prega, ama, proprio come ha lottato, pregato e amato in lui. Non sono perciò costretto a seguire un modello – quello di Cristo – certamente sublime, ma del tutto ineguagliabile. Lo Spirito Santo è l’Amore in persona e mi dona di fare ciò che posso e di chiedere – sicuro di ottenerlo – ciò che non posso. Nel mio cammino verso Dio, non sono costretto ad oscillare tra miraggi e frustrazioni. Nel mio servizio ai fratelli posso imprestare le mie mani e il mio cuore a Cristo perché continui ad amarli e a servirli lui attraverso di me. E anche nell’ora del dolore posso contare sull’opera del tenerissimo e fortissimo Consolatore, che ci consola in ogni nostra tribolazione. Lo Spirito di Gesù non ci fa mai sentire né schiavi né orfani, né stranieri né clandestini. Perché non confidare nella sua forza onnipotente e dolcissima?
Io spero, perché Gesù mi ha donato la Chiesa. Non è, la Chiesa, il club dei perfetti; è la compagnia dei perdonati. Posso rilassarmi. Nella Chiesa c’è tanta “sporcizia” quanta ce ne vuole perché lo Spirito del Risorto ne incenerisca i rifiuti tossici ogni ventiquattr’ore e non permetta che il male la sommerga. La Chiesa è di Gesù: non è mia. Non è un’azienda a reddito. Non è il palazzo del potere. Posso stare sereno: Gesù mi ha inserito in essa non perché sia io a doverla salvare, ma perché sia lei a salvarmi. E io l’amo più della mia famiglia, non perché mi si presenti sempre amabile e particolarmente simpatica, ma perché il Signore Gesù l’ha amata più della sua vita, e in duemila anni non l’ha mai tradita. Don Milani si domandava, scettico: «C’è qualcosa di meglio in giro?». Sottoscrivo.
Io spero, perché Gesù mi svela il senso della vita. E il “senso” – come orientamento e come significato – è questo: “amare sempre”, come diceva don Oreste. Amare, accogliendo l’amore di Dio e riversandolo sul prossimo. Amare tutti, dovunque e comunque. Chi ama – scrive Giovanni, l’evangelista dell’amore – non rimane nella morte. La mia vita è Cristo: lo diceva Paolo, ma non vale per ogni cristiano? La mia storia così minuscola, guardata con lo specchietto retrovisore della fede, mi appare come una preziosissima miniatura in corso d’opera. Posso dire mille volte grazie per quanto il Signore ha già operato, e mille ed una volta grazie per quanto ancora certamente farà. La speranza non è figlia della gratitudine e gemella della fiducia?
Io spero, perché Gesù mi ha promesso il massimo della felicità. Credo che vivere non è fare il viaggio sempre troppo breve e piuttosto scomodo dalla neonatologia all’obitorio. Credo che c’è una felicità ben più grande del benessere yo-yo (yogurt-yoga) o del comprare-consumare-rottamare. Credo che c’è un’aspirazione ben più alta dell’andare in giro firmati da capo a piedi. Credo che l’uomo – secondo Gesù – non è come lo descriveva Kafka: “una talpa terrorizzata che attende la fine tra paura della vita e terrore della morte”. Credo che l’uomo è destinato ad un massimo di amore, di libertà, di verità… Credo che questa vita è sempre e comunque degna di essere vissuta come un allenamento, più o meno lungo e faticoso, ad essere felice con Dio e con tutti i miei fratelli. “E non ci sarà più lutto, né dolore, né pianto…”. Nell’attesa di essere felice non posso già ora essere felice nell’attesa?
Carissimi, sottoscrivo questo augurio, firmato da s. Paolo. «Dio, che ci dona di sperare, ricolmi di gioia e di pace voi che credete, e per mezzo dello Spirito Santo accresca la vostra speranza».
Vi abbraccio con grande affetto.
Buona GMG ’09! Buona Pasqua!