E’ il vangelo nel Vangelo, quello che ancora una volta ci è stato appena proclamato. E’ il vangelo della divina, umanissima misericordia di Gesù. Nel riascoltare il brano – un racconto di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità mistica – mi viene da chiedermi: ma c’è in tutta la letteratura mondiale una pagina così? Se ne trova una di più palpitante tenerezza, di più fremente commozione? Io, certo, non ho esplorato tutti i papiri, i rotoli e tutto il mare di libri e di carte di quella sterminata antologia, ma mi viene da pensare che una pagina così non ci sia. Non ci può essere, perché qui ci viene annunciata la notizia più esaltante e stupefacente che ci possa essere comunicata. Cioè: Dio è tutto fatto di misericordia: “Mostra la sua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono”, commenta san Tommaso d’Aquino.
1. In effetti il protagonista delle parabole non è il pastore che ha perduto la centesima pecora, quindi un ‘centesimo’ del suo gregge. Né la donna che ha smarrito la decima dramma, quindi un ‘decimo’ del suo minuscolo gruzzolo. Neppure il figlio che noi diciamo ‘prodigo’ è il protagonista della terza parabola. Perché, dal momento che prodigo significa dissipatore, scialacquone, qui se c’è uno che spreca e sciala in misericordia è proprio il Padre della parabola.
Pensiamoci bene. In quella casa ci sono due figli. Il più giovane è un lupacchiotto affamato di felicità: vuole addentare la polpa della vita e succhiarne l’ebbrezza del godimento più sfrenato. E per questo fa come se il babbo fosse già morto. Lo fa fuori dal proprio cuore, e gli chiede in anticipo la parte di eredità che gli spetta. E il padre che fa? Non fa storie: gliela dà. Punto. E a me piace pensare che non solo non lo scaccia, ma lo bacia e lo abbraccia. E lo fissa a lungo andare via, come un puntino che si perda in un lontano orizzonte…
Ma, dopo sballi, sbornie e follie varie, quel figlio scapestrato si ritrova povero in canna a contendere con i porci il sapore sgradevole delle ghiande, con tutto il loro amaro retrogusto di vergogna e di raggelante tristezza. A quel punto il disgraziato ritorna in sé, prova la nostalgia più struggente, e sogna il profumo del pane più buono: il pane di casa. E decide di tornare. No, non torna per amore. Neppure per dovere. Ma per bisogno. Lo scellerato e infame torna per fame.
Ora riandiamo alla tre parabole e rileggiamole in parallelo. Notiamo che Gesù utilizza tre immagini per scolpire un solo volto: il volto del Dio, ricco di bontà e di sconfinata dolcezza. Se la prima immagine – il pastore – è quella di un uomo, la seconda – sorprendente per i suoi uditori -è quella di una donna. Arrivato alla terza immagine, Gesù fa sintesi tra le prime due. Mette insieme i tratti maschili del pastore e quelli femminili della casalinga, e ci pennella il volto di un padre. Non un padre-padrone, ma un Abbà, un babbo fortissimo, con il cuore dolcissimo di una mamma.
E’ veramente un cuore materno quello del padre della parabola: “quando (il figlio) era ancora lontano, (il padre) lo vide e si commosse”. L’abbinamento di questi due verbi – vedere e commuoversi – è molto caro all’evangelista Luca, che vi aveva già fatto ricorso per descrivere l’approccio di Gesù nei confronti della vedova di Nain, nel momento in cui veniva portato alla sepoltura l’unico figlio, prematuramente scomparso: il Signore “la vide e si commosse” (Lc 7,13). La seconda volta questi verbi ricorrono appaiati nella parabola del buon Samaritano, e sono due dei dieci verbi usati per descrivere il soccorso da lui prestato a quel povero malcapitato, che era stato lasciato mezzo morto lungo la Gerusalemme-Gerico. Da notare che l’accento cade ogni volta sul secondo verbo – commuoversi – un verbo tipicamente materno, perché indica il sobbalzo del grembo della mamma, quando si vede correre il figlio incontro: è appunto da quel brivido viscerale che si sente afferrato il padre misericordioso quando vede il figlio vagabondo, ancora lontano.
2. A questo punto dobbiamo domandarci: ma è questo il volto del Dio in cui crediamo? O dopo duemila anni di cristianesimo dobbiamo onestamente riconoscere che il nostro è il dio della paura? Il dio-idolo, un giudice inflessibile che ha in una mano la bilancia dei suoi giudizi inappellabili e nell’altra mano il fascio delle sue saette folgoranti. Ma questo è l’idolo terrificante sempre pronto a tendere rappresaglie ai suoi poveri figli. E’ il dio dell’interesse che fa i suoi affari e che si mostra ricattabile e disponibile anche a fare i nostri interessi, purché si veda lautamente risarcito dai nostri massacranti digiuni, da mortificazioni spossanti e spietate penitenze espiatrici.
Noi sappiamo come sia cominciata questa brutta storia e come si sia terribilmente sviluppata. Il padre della menzogna, il serpente antico, ha contagiato il cuore dell’uomo con il virus del sospetto contro Dio, il quale sarebbe morbosamente geloso della propria gloria, e si sarebbe implacabilmente accanito, per invidia, contro la nostra scarsa quota di felicità: vedi il dramma del ‘peccato originale’. Le cose invece stanno esattamente al contrario. Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre, comune sia al figlio minore che al maggiore. L’uno, per liberarsene, instaura la “strategia del piacere” che lo porta ad allontanarsi di casa. L’altro, per monopolizzarne la benevolenza, instaura la “strategia del dovere”, con una religiosità servile, che sacrifica la gioia del vivere. Ma quanto più i figli si sono messi contro il Padre, tanto più Dio ha amato il mondo, fino al punto da mandare a noi nella pienezza dei tempi il suo unico Figlio come salvatore.
“Ma che cosa ha portato Gesù veramente – si chiedeva papa Benedetto – se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: Dio. Gesù ha portato Dio. Ora noi conosciamo il suo volto, ora noi possiamo invocarlo. Ora conosciamo la strada che, come uomini, dobbiamo prendere in questo mondo. Gesù ha portato Dio e con Lui la verità sul nostro destino e la nostra provenienza: la fede, la speranza e l’amore”.
A questo punto non ci resta che il grido di stupore grato e ammirato che s. Agostino formulava così: “Quanto ci hai amati, Padre buono, quanto ci hai amati, Tu che non hai risparmiato tuo Figlio, ma lo hai dato per noi peccatori!” (Conf. 10,43).
Rimini, Chiesa della Colonnella, 10 settembre 2022
+ Francesco Lambiasi