Omelia del Vescovo per la messa nella notte di Natale
Struggente e sconcertante. Scandaloso e gaudioso. Spettacolare e strabiliante? no. Ma stupefacente: sì. Dopo duemila anni il mistero del Natale non finisce di stupire. Eppure – paradossale, ma vero – il rischio più serio con questa festa – introdotta nel calendario ‘giuliano’ nel 325 d. C. – lo corriamo proprio noi che ci diciamo ‘cristiani’. E’ il rischio dell’assuefazione. Il rischio di ridurre la festa ad una stanca, sbiadita abitudine. Il rischio di trasformare la celebrazione in una trita e ritrita formalità, in una stucchevole convenzione del folclore tradizionale. Senza l’odore della sorpresa. Senza il colore della meraviglia. Senza il calore dello stupore. Insomma, il rischio di andare in automatico con il mistero.
1. Nel racconto di Luca, si parla dei pastori, che dopo aver visto il “segno” – quello di una giovane puerpera con il suo neonato, adagiato in una mangiatoia – segno, che ha destato in loro uno stupore intrattenibile, lo contagiano a loro volta “in modo virale”… Nel presepe napoletano non manca di solito la figura di un pastorello che rimane abbagliato dal fiotto di luce che prorompe dalla grotta, e tiene la mano a visiera sulla fronte per calibrare meglio la vista.
Chiediamoci: perché la reazione al vangelo del Natale non può che essere lo stupore? Pensiamo ai pastori. Ma chi lo avrebbe detto allora che quel fatto a prima vista così normale, così modesto – una donna che partorisce la sua creatura – e non il primo grande censimento universale, avrebbe tagliato la storia in un ‘prima’ e in un ‘dopo’ la nascita di quel bimbo? Quale non deve essere stata l’estasi di Maria, nel trovarsi la carne di Dio tra le braccia, nel vedere, udire, toccare e abbracciare in quel piccolino l’Infinito, l’Assoluto, l’Eterno?!
La domanda vale anche per noi. Siamo chiamati a una conoscenza manuale del Signore, posto nelle nostre mani. L’Altissimo si è fatto piccolissimo. L’onnipotente si è reso onni-impotente. La Parola si è fatta in-fante (lett. ‘che-non-parla’). L’immortale, mortale. La gioia senza fine si è ridotta a vagito di un bambino… che chiede solo di essere da noi accolto e abbracciato. E’ il mistero del Dio-Amore, che nulla teme e si espone ad ogni piccolezza e debolezza. Ad ogni impotenza e sofferenza. Ad ogni degradazione e umiliazione.
E’ stupefacente. L’icona della mangiatoia colpisce per la sua disarmante semplicità e per la sorprendente assenza di ogni tratto clamoroso, scioccante, strabiliante. Il paradosso del Natale è proprio qui. Ad essere proclamato Salvatore, Messia e Signore è proprio quel bambino povero, avvolto in fasce e adagiato in una greppia. E’ l’evangelo, appunto la lieta notizia. Questa: non soltanto Dio si è fatto uomo, ma, per farsi uomo, ha scelto la forma di Gesù di Nazareth. Dio non sceglie di rivelarsi nella forma di un imponente faraone egiziano o di un super-potente imperatore romano. In questo caso sarebbe mancata la novità, perché è esattamente ciò che il senso comune si sarebbe aspettato. Il Natale è un capovolgimento, una vertiginosa sorpresa. Venuto da noi in forma d’uomo, il Figlio di Dio vuole che si continui a cercarlo fra gli uomini e che lo si accolga come un uomo. E’ un povero che ha fame e sete, un ammalato che attende una visita, un perseguitato che si aspetta solidarietà, un immigrato che ha bisogno di accoglienza.
2. Ma cosa significa allora celebrare il natale di Gesù? Attendersi una sua nuova nascita in questo nostro tempo? No. Il Figlio di Dio è nato una volta sola, e non rinasce di nuovo ogni anno da ‘carne e sangue’. Il Natale non è affatto né l’ennesima riedizione della nascita di Gesù a Betlemme. Né la sacra rappresentazione di un evento ormai passato, e pertanto, di per sé, non più riproducibile ai nostri giorni. Ma celebrare il Natale non significa neppure solo ‘ricordare’ quella nascita, bensì ‘partecipare’ a quell’avvenimento. E partecipare al Natale vuol dire accoglierne la grazia. La grazia che compie per noi oggi ciò che per noi ha significato il nascere di Gesù da ‘carne e sangue’: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
‘Celebriamo’ il Natale perché Dio rinnovi la nostra adozione a figli. Un’adozione non giuridica, puramente formale, né una figliolanza di serie B, ma proprio come dice la parola latina ad-optare: optare per qualcuno, scegliere qualcuno per sé. Come quando un papà e una mamma scelgono di concepire un figlio. «E che noi siamo figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!’» (Gal 4,6). “E tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio” (Rm 8,14), rincara Paolo ai Romani.
Celebrare è verbo di luce, perché ci immerge nella luce più sfolgorante che possa mai apparire al mondo: l’opera del Padre che dona il suo Figlio, abbracciandoci tutti con il suo Amore, cioè nello Spirito Santo. E questo Spirito del Figlio ‘primogenito’ il Padre lo effonde e lo infonde nei nostri cuori (Rm 5,5), facendoci figli-nel-Figlio, suoi veri ‘consanguinei’. Ma se siamo figli, allora siamo anche fratelli: sorelle e fratelli tutti. Così Betlemme diventa l’unico approdo per chi cerca Dio. La strada che porta a Betlemme è lastricata di solidarietà, di condivisione, di fraternità. Di accoglienza del diverso, di difesa del bambino da ogni violenza, di calore per l’anziano, di custodia della vita, di impegno per la pace.
3. Che gioia, Sorelle e Fratelli tutti, non solo sapere, ma provare e sentire lo stupore di chiamarci figli di Dio, ed esserlo realmente. Che gioia poter gridare a Dio Padre, con gli stessi sentimenti del cuore di Gesù: “Abbà, Babbo caro!”. Se Dio è il dolce Padre nostro, noi non siamo più, rispetto a lui, né schiavi perennemente arrabbiati né mercenari venali e fiscali. Né orfani solitari e tristi né povere creature misconosciute o rinnegate, ma figli, teneramente e tenacemente amati.
Che gioia e che dono poterci abbracciare come fratelli e sorelle, dando e ricevendo perdono, stima, aiuto, fiducia, per camminare insieme sul sentiero della pace e della speranza.
Che gioia e che grazia in questa notte santa ricordare i fratelli e le sorelle delle grandi religioni del mondo, ma anche di quelli che faticano a credere, a sperare, a donare, a perdonare.
Che gioia e che impegno ricordare in questo Natale quanti muoiono di fame, quanti patiscono violenza, quanti sprofondano nella solitudine, quanti soffrono nell’anima e nel corpo.
Che gioia e che responsabilità poter fare in questa liturgia un ‘pieno di stupore’, perché con la grazia dello Spirito Santo e anche con il contagio di noi che ci diciamo cristiani, quanti faticano a credere possano continuare a cercare il Dio-Bambino finché non lo hanno trovato.
Rimini, Basilica Cattedrale – 25 dicembre 2021
+ Francesco Lambiasi