In memoria di don Sergio Matteini
Omelia per la Messa esequiale
Gesù lo sapeva: se il piccolo chicco di grano, seminato in terra, non marcisce e non muore, rimane solo. Se si chiude in se stesso, se si tiene e si trattiene tutto per sé, non fiorisce nella spiga dorata. Gesù si specchia in quel seme e vi concentra tutto il suo vangelo: “Chi ama la propria vita, la perde”.
Anche il piccolo Sergio Matteini lo sapeva. L’aveva imparato dai genitori contadini. Ma, quando si è messo alla scuola di Gesù, in seminario, ha imparato che vivere è far vivere. E si sarà detto: “Così mi piace vivere: come Gesù, come il seme che dona la vita marcendo”. Amare fa rima con il verbo morire. Come fiorire fa rima baciata con il verbo marcire. Morire, marcire per far fiorire la vita. Un mini-trattato sulla vita del cristiano e del prete che don Sergio non ha mai dimenticato di masticare e di riscrivere nella sua vita di cristiano e di prete.
1. Ora che il suo pellegrinaggio alla casa del Padre è terminato, noi Sorelle e Fratelli tutti, qui presenti, dobbiamo assumerci una precisa, inderogabile responsabilità. Quella di farci esecutori testamentari dell’eredità del Don. Un patrimonio che io vorrei provare a ricostruire in due passaggi.
Il primo passaggio lo definirei con la parola ‘decentramento’. Don Sergio è vissuto con un ideale sognato ad occhi aperti. Questo: lasciarsi decentrare. Lasciarsi espropriare di sé, della propria vita per prendersi cura della vita degli altri. Mi viene da pensare che a don Sergio non gli risulterebbe extra-large un profilo pennellatogli addosso così: prete per gli altri. Prete della gente, per la gente. Prete per la vita della gente. Questo può e deve dire a se stesso un prete ogni mattina, quando si sveglia. Questa giornata che il Signore mi regala non è per me. E’ per la mia gente.
Uscire da sé per andare verso quanti ci sono affidati. Verso chiunque incontreremo, h. 14. Uscire verso gli altri per dire come don Milani: “I care”. Poter andare per la strada, guardare negli occhi ogni persona e poterle dire: “Sorella, Fratello, ti voglio bene”. Sì, ti voglio bene. Perché la tua vita è più importante della mia. Perché il tuo male mi fa più male del mio. Perché la tua salute è più preziosa della mia. La tua pace mi sta più a cuore della mia. Il tuo problema viene prima del mio…
2. Questa ‘opzione fondamentale’ vale per ogni uomo che voglia vivere da fratello per i suoi simili. Ma in particolare vale per ogni cristiano. E in modo specialissimo per ogni prete. E perché non resti, per il prete, una pia intenzione o un vago, fumoso desiderio, ma diventi vita nella nostra vita, allora occorre che il nostro Don faccia una scelta preliminare. Quella di lasciarsi espropriare da Gesù, il buon Pastore, che dà la vita per le sue pecorelle. Lasciarsi espropriare di se stesso per permettere al Signore Gesù di agire in lui e attraverso di lui. Già la fede battesimale, ma ancora di più il ministero ordinato, consegna la persona a Dio, a Gesù, il quale diventa – per me, per te, fratello presbitero – il Signore della vita. Colui che la orienta, la difende, la guarisce. Colui che le dà colore, odore, sapore. E allora si verifica il paradosso.
Il paradosso – lo sappiamo bene, ma non finisce di sorprenderci – è che, a farsi strumenti e servi di Cristo non solo non si diventa meno se stessi. Ma anzi lo si diventa ancora di più. La nostra stessa esistenza umana raggiunge così la sua strapiena, esuberante compiutezza.
E allora si può morire in pace, nella gratitudine, con il cuore pacificato e perfino nella perfetta letizia, di chi può scrivere, come don Sergio: “Nella mia vita tutto è stato un intreccio di doni, che ho ricevuto da Dio, dalla mia famiglia, dai miei vescovi, dai confratelli e dalle comunità cristiane in cui sono stato mandato. Tutti ringrazio e a tutti chiedo perdono. Mi affido unicamente alla misericordia del Signore” (dal suo testamento olografo, firmato e datato: Rimini, 29 agosto 2015, quasi 6 anni esatti prima di incontrare Sorella morte!).
3. Ma ora vorrei aggiungere altra legna da ardere al fuoco della nostra memoria, pensando a don Sergio. Ecco alcune testimonianze, tratte da un bouquet di ricordi, raccolti dal buon cuore memore e grato di diversi di voi.
Una Sorella di fede: “Come si può ridurre il segno impresso da don Sergio in ognuno di noi con un ricordo? La Chiesa ci invita a riconoscere i testimoni che sulla nostra strada sono segno del fatto che sono investiti totalmente dalla presenza di Cristo in ogni atto del vivere. Ecco, don Sergio, questo sei stato per me, ogni volta che hai risposto ad un bisogno, ad un chiarimento,ad una domanda di aiuto, hai corretto con delicatezza e lucidità le fatiche e le gioie riconducibili al disegno del Padre, hai donato tutto e condiviso un’amicizia che corrisponde totalmente al bisogno del cuore di ogni uomo. Grazie”.
Un parrocchiano: “Ho conosciuto don Sergio nel 1964 quando ero in seminario. Lui era cappellano a Savignano: veniva a trovare i miei genitori che erano mezzadri della parrocchia di Santa Lucia. Mi aveva colpito il rapporto con i miei: un rapporto alla pari, di sincera condivisione con chi lavorava la terra, perché anche lui era figlio di contadini. Per me don Sergio è stato un maestro. Lo definirei maestro della quotidianità. Diceva spesso: Lasciamo il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato”. Amava gli scout. Amava le relazioni semplici. Ti guardava con occhi pieni di dolcezza, mai giudicanti. La tenerezza era la sua forza. Si ricordava sempre della tua famiglia, e l’aveva sempre nel cuore. Nelle difficoltà ti accompagnava ad intraprendere strade di riconciliazione. Aveva fiducia nell’uomo e nella sua bontà. Era l’amico che ti supporta nelle scelte e lo sentivi presente al tuo fianco. Sempre interessato al tuo cammino”.
Un confratello della Casa del Clero: “La Diocesi, e in particolare il presbiterio, ha un ulteriore debito di riconoscenza verso don Sergio, perché gli ultimi 20 anni li ha passati presso la Casa del Clero come direttore, fino a un paio di anni fa. Anche verso i confratelli e il personale ha manifestato il suo stile di cordialità e di premura, con il quale ha creato un clima di familiarità, di serenità e di fede, così prezioso specialmente per dei sacerdoti che, per l’età o per e condizioni di salute, hanno dovuto lasciare il ministero attivo in parrocchia, ma sentendosi ugualmente valorizzati, stimati, curati. La forza d’animo con la quale poi ha affrontato quest’ultimo periodo molto impegnativo per la sua salute, la gioia di essere potuto tornare ‘fra i suoi amici della Casa del Clero’, dopo un lungo periodo di degenza ospedaliera, sono state un’ulteriore testimonianza di amore e un dono ai confratelli.
Per finire, tre brevi testimonianze di don Sergio stesso. Ecco cosa scriveva in data 29 giugno 2001, nel giorno anniversario della sua ordinazione sacerdotale, a Mons. Mariano, dopo aver preso la decisione di chiedere al vescovo di poter lasciare la Parrocchia: “Chiedo perdono al mio Vescovo e alla comunità parrocchiale e diocesana per quanto non ho saputo fare, a causa dei miei limiti e delle mie pigrizie, in favore del regno di Dio, in Santarcangelo. Mi permetto di aggiungere di non pretendere nulla, né desidero trattamenti privilegiati. Vorrei però continuare a lavorare per la Chiesa, fino a quando il Signore me lo concederà, con un incarico pastorale adeguato alle mie forze”.
Si trattò di una decisione da lui stesso definita “terribilmente sofferta”. “Per dieci giorni – raccontò in una intervista a un quotidiano locale – mi sono sentito come spezzato tra l’esigenza di un incarico più ridotto e la voglia di restare in questo bel paese”. E aiutò la sua gente ad affrontare quel distacco perfino con le sue battutine, sempre frizzanti, mai spinose e pungenti. In fondo – fece capire – che con Santarcangelo lui aveva avuto un rapporto, tipo lascia e raddoppia. E’ vero che lasciava la cara città, ma era pur vero che a Santarcangelo lui aveva raddoppiato la sua vita: vi era arrivato a 32 anni e lasciava a 64. Del resto, aggiungeva con la sua amabile autoironia: in quei giorni era stato cambiato il mitico campanone. Perché non doveva cambiare anche il… parrocone?
Ma l’ultima testimonianza di don Sergio l’ho raccolta io stesso dalle sue labbra, quando una quindicina di giorni fa sono andato a trovarlo in ospedale e, dopo avermi chiesto la confessione, ha cominciato a ripetere più e più volte, quasi in un giubilo compulsivo, ma come una dolce litania: “Il Signore mi ha troppo amato. Il Signore mi ha troppo amato”.
Grazie, Signore, per averci dato don Sergio.
Grazie, don Sergio, per averci dato il Signore.
Santarcangelo, 27 agosto 2021
+ Francesco Lambiasi