Omelia del Vescovo all’azione liturgica del Venerdì santo
Tra le tante raffigurazioni di Cristo in croce, penso ci sia rimasta impressa quell’icona dell’arte bizantina, che ama raffigurare il Crocifisso rivestito dei paramenti sacerdotali. L’immagine non va presa, ovviamente, in senso storico, dal momento che il condannato veniva inchiodato al patibolo completamente nudo, per essere così esposto a frizzi e lazzi di quanti assistevano all’orrendo spettacolo della crocifissione. L’icona bizantina va piuttosto ‘letta’ in chiave teologica: sulla croce Gesù è stato il nostro grande, unico, sommo sacerdote. Così abbiamo ascoltato nella seconda lettura: noi “non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni osa come noi, escluso il peccato” (Ebr 3,15).
1. Il messaggio è lampante: l’esperienza del patire ha portato Gesù a compatire le nostre fragilità. La sua misericordia non è il sentimento superficiale di chi si commuove facilmente, ma di chi ha sofferto personalmente. La compassione verso i propri simili si acquisisce con la passione-partecipazione per la loro sorte. Cristo sa compatire perché è stato provato in tutto come noi. Sin dalla nascita ha conosciuto la povertà, l’ostilità, l’emarginazione. Poi ha sperimentato sulla sua carne la fatica, la stanchezza, la fame, la sete, il sudore, il dolore. Ha provato anche il tradimento, l’ingiustizia, l’ignominia, la croce. E’ così che ha acquisito una straordinaria capacità di con-passione.
Già nell’Antico Testamento la misericordia di Dio si era manifestata molte volte e in diversi modi. Anche commoventi, però mancava una dimensione: quella che viene espressa da un cuore umano e che viene acquisita attraverso le esperienze dolorose dell’umanità. Cristo ha dato alla misericordia divina questa dimensione umana tanto commovente e tanto consolante per noi.
Ma nell’Antico Testamento si riscontra al riguardo un particolare tutt’altro che insignificante. Il sacerdote non era e non doveva essere l’uomo della misericordia, della solidarietà e della comprensione. In una parola, della più umana umanità. Ma della severità più spietata. Soprattutto nei confronti dei peccatori. La religione ebraica legava l’idea di sacerdozio quasi unicamente alla relazione del sacerdote con Dio. Pertanto il sacerdote doveva rigidamente opporsi ai peccatori,gli irriducibili nemici di Dio.
Questo è l’insegnamento che viene propinato dal libro dell’Esodo, proprio nel momento dell’istituzione del sacerdozio levitico. Il popolo si è lasciato andare all’idolatria del vitello d’oro. Sceso dal Sinai, Mosè chiama a sé chi sta dalla parte di Dio. Si fanno avanti i Leviti, ai quali Mosè ordina: “Dice il Signore, il Dio d’Israele: Ciascuno di voi tenga la spada al fianco. Passate ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio vicino” (Es 32,27). Un comando intransigente, feroce, disumano. I Leviti eseguono l’ordine, uccidono tremila persone. Allora Mosè dichiara: “Così oggi voi avete ricevuto la consacrazione sacerdotale”.
2. Quanta differenza con il sacerdozio della nuova alleanza! Gesù non è diventato sommo sacerdote esternando una severità efferata contro peccatori, pubblicani e prostitute, ma al contrario manifestando una misericordia sconfinata, verso la nostra miserabile sorte. E questo già prima della passione, nella sua vita pubblica. Mangiando con i peccatori, guarendo malati e lebbrosi, liberando indemoniati e depressi, accogliendo piccoli, poveri ed emarginati, guidando le folle abbandonate, che ai suoi occhi apparivano come pecore senza pastore.
L’atteggiamento misericordioso e compassionevole di Gesù viene espresso attraverso un termine femminile, tipicamente materno: splagchna, caratteristico dell’atteggiamento di Gesù. Viene normalmente tradotto con commuoversi, provare compassione. Ricordiamo il buon samaritano. A differenza del sacerdote e del levita che passano, guardano e by-passano quel malcapitato, lasciato mezzo morto lungo la strada dai briganti, il samaritano non passa oltre. Perché “vede” quel poveretto e “ne prova compassione” (Lc 10,33). E perciò gli si fa vicino, per prestargli un pronto soccorso.
Ci si potrebbe chiedere: ma l’assenza di ogni peccato in Gesù non sbiadisce forse la sua solidarietà con noi peccatori? Assolutamente no. Perché il peccato non solo non decide alcuna solidarietà, ma semmai la cancella. Non si deve confondere complicità con il peccato e solidarietà con i peccatori. Il peccato è un atto di egoismo e crea divisione.
Anche riguardo al peccato, possiamo notare uno stridente contrasto tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Mentre nell’Antico Testamento troviamo un sommo sacerdote peccatore, Aronne, totalmente privo di compassione per i peccatori, nel NT troviamo un sommo Sacerdote, Gesù, che è senza peccato ed è pieno di compassione per i peccatori.
Tutto questo si riassume al più alto grado di intensità sulla croce. Gesù non invoca vendetta contro mandanti ed esecutori della sua morte, ma implora perdono e misericordia. E per il cosiddetto buon ladrone che lo supplica di un ricordo pietoso, Gesù assicura con letterale e viscerale con-passione: “Oggi sarai con me nel paradiso”.
Ne consegue che noi possiamo avvicinarci al trono di Dio con fiducioso, confidente abbandono: “Avviciniamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia , così da essere aiutati al momento opportuno” (Ebr 4,18).
Rimini, Basilica Cattedrale, 2 aprile 2021
+ Francesco Lambiasi