Omelia tenuta dal Vescovo per vari anniversari di professione tra le Maestre Pie dell’Addolorata
Strano destino delle parole. Croce è parola obbligata e irrinunciabile del vocabolario cristiano. Ma dopo essere stata a lungo citata e stracitata, usata e perfino abusata, oggi quella parola risulta indigesta, silenziata e del tutto esiliata dal linguaggio corrente. Come mai? Certo san Paolo, che ne ha fatto l’architrave della sua teologia, si rendeva ben conto che “la parola della croce” era follia per la saggezza mondana e bestemmia per la sensibilità religiosa (cf. 1 Cor 1,23).
1. Ma il primo a ‘scandalizzarsi’ per il messaggio della croce fu lo stesso Pietro che, pure, è stato il primo, tra i Dodici, a professare la fede in Gesù come “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E si è poi visto accreditato dal Maestro come il depositario delle chiavi del regno dei cieli. Ma oggi il vangelo ci fa passare dalla confessione-professione di fede nei confronti di Gesù da parte di Pietro, alla sconfessione di Pietro da parte di Gesù. In fondo Simone, figlio di Giona, aveva dato la risposta esatta alla domanda del Maestro sulla sua identità messianica, ma nell’idea che si era fatto di Messia non c’era posto alcuno per la sofferenza, l’umiliazione e la morte in croce. Insomma Simon Pietro non riusciva proprio ad abbinare il titolo di ‘Messia’ alla parola ‘croce’.
Ma ciò che più sconcerta è il fatto che anche dentro la Chiesa, attorno al “vangelo della croce” e ai collaterali imperativi evangelici del rinnegamento di sé, della rinuncia, del sacrificio e della mortificazione, si registra un silenzio cauto e reticente, quasi pauroso. Come si avverte nella predicazione, nella catechesi, e più in generale nell’educazione cristiana. La ragione principale di questo silenzio intimidito è una visione distorta della croce, come quando la si intende soprattutto, se non esclusivamente, come rinuncia e sofferenza. Come disgrazia che capita improvvisa. Come incidente che arriva inaspettato.
Per mostrare concretamente quanto sia facile fraintendere la parola della croce, riprendiamo il testo del vangelo di oggi (Mt 16,21-27). Là dove un tempo si leggeva: “Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria anima?”, nella traduzione più fedele e aggiornata l’interrogativo è formulato così: “ma perderà la propria vita?”. In effetti il termine greco soggiacente psyché va reso e inteso come ‘esistenza’, come ‘vita’ vissuta.
Pertanto la contrapposizione posta dal vangelo è fra due logiche di esistenza. Una è la logica mondana, che punta sul successo, sul possesso, sul benessere individuale e cerca la propria affermazione nell’avere e nel volere avere sempre di più. L’altra è la logica del vangelo che invece mira al dono di sé. E’ lo scontro fatale tra il pensiero dell’uomo e il pensiero di Dio. L’uomo che si illude e tenta di salvarsi da sé, diventa egoista, fino a uccidere la vita e a procurarsi la morte. Dio invece, nella carne di Gesù, sa perdersi per amore, fino a dare la propria vita.
2. Gesù è diretto a Gerusalemme, dove dovrà soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi. Questi tre gruppi rappresentano il pensiero mondano, espresso in tre verbi mortiferi: avere, dominare, apparire. Ad essi il vangelo oppone rispettivamente tre verbi benedetti: donare, servire, essere. Ma prima di chiedere, a chi vuole andare dietro a lui, di prendere la propria croce, Gesù domanda di “rinnegare se stesso”. Parole di una franchezza disarmante, in netta controtendenza rispetto al sentire comune, di ieri e di oggi. La nostra cultura attuale propugna come valore supremo l’autorealizzazione dell’individuo, perseguita attraverso il benessere privato. Tutto ciò che non punta su questa meta (o miraggio?) viene combattuto e rifiutato come alienazione dalla propria individualità.
Ma che significa per Gesù “rinnegare se stessi”? Non, certo, mortificare le proprie autentiche possibilità o rinnegare i veri valori umani. Significa contestazione del proprio io malato ed egoista. Significa reazione alle proprie insaziabili voracità e aggressività. Rinnegarsi non è alienarsi. Per Gesù è realizzarsi. Perciò non si dà alternativa tra l’essere uomini e l’essere cristiani, perché “chi segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo” (GS 41). Umanesimo cristiano.
A questo punto siamo in grado di chiarire il senso preciso del “prendere la croce”: non è la ricerca della sofferenza fine a se stessa. Una fredda orrenda negazione. Una disperata sconfitta. Ma è il passaggio dall’idolatria dell’Io alla donazione di sé. E’ la vittoria dell’amore più grande: quello di “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Qui “dare la vita” non indica tanto il morire, quanto il gestire la propria esistenza nell’orizzonte dell’amore e del limpido, gratuito dono di sé.
3. Care Sorelle, che fate lieta e grata memoria della vostra professione tra le Maestre Pie dell’Addolorata! Permettetemi di scolpire nel cuore di ognuna di voi due ‘perle’, intercettate nello scrigno degli scritti della vostra Fondatrice, la beata Elisabetta Renzi: “Per essere Povera del Crocifisso è necessario, con l’aiuto di Dio: essere morta al mondo, morta a se stessa e vivere soltanto per Gesù Crocifisso”. E ancora: “L’alleluia sta di casa al di là del Calvario”. Le trovo pienamente in linea con il vangelo della croce di oggi.
E’ vero. Noi diciamo croce e pensiamo a ‘dolore’, ma vogliamo dire ‘amore’. E pensiamo a ‘vita’. Croce come decisione d’amore. Come sudore che profuma di solidarietà. Come sacrificio che brilla di sororità e di fraternità. Croce come tenace, umile, coraggiosa scelta di perdere la vita donandola, per farla fiorire dentro e attorno a noi. Una scelta, questa, sottoscritta da voi vari anni fa, rinnovata ogni giorno, a ogni passo, tra le molte penose contrarietà e le semplici gioie della vita. Con tanta passione in cuore e, spesso, con tanta stanchezza addosso. Una scelta fondata sulla certezza che non è la croce in quanto dolore ad essere redentiva. Ma redentivo è l’amore gratuito, assoluto: quello crocifisso e risorto. Una scelta, la vostra, più che detta a parole, tradotta con i gesti umili e tangibili che dicono e donano l’amore.
Fosse pure il gesto, fatto al povero, al malato, al ‘piccolo’, di un bicchiere d’acqua fresca…
Rimini, Cappella dell’Istituto, 30 agosto 2020
+ Francesco Lambiasi