Omelia del Vescovo per la Messa esequiale
Carissimo fratello Agostino, babbo di Roberto, e carissima sorellina, Dalila, sua morosa,
Permettetemi di accostarmi a voi con tutta la tenerezza che meritate e con tutta la delicatezza di cui in questo momento io vorrei essere davvero capace. Vi ho chiesto di poter condividere questa celebrazione in memoria del vostro amatissimo Roberto, e vi sono molto grato perché me ne offrite l’opportunità. Vi confesso in tutta sincerità: preferirei stare semplicemente vicino vicino a voi, ma so di dovermi assumere la responsabilità di rendervi questo servizio che, da parte mia, non vuole essere una predica ammorbante né una noiosa lezione di teologia.
Lo so e lo sento: tutto il groviglio di sentimenti e sensazioni che vi portate in cuore si concentra in un grido di dolore: perché questa morte così brutale, perché questo dolore tanto crudele? Credetemi. Non ho nessuna intenzione di rifilarvi qui risposte preconfezionate e sgradevoli. Né di dirvi parole formali e stonate.
L’unica parola che mi porto in cuore non è un’idea, una sigla o uno slogan pubblicitario. E’ un nome preciso: Gesù. Sì, Gesù di Nazaret. La sua persona. La sua storia. La sua identità, unica e assolutamente irrepetibile, di Figlio di Dio e Figlio di Maria. Gesù non è venuto in mezzo a noi a tenerci corsi di filosofia del dolore o di terapia antalgica. Non è venuto a spiegarci il misterioso perché dell’umana sofferenza, ma a spartirla con noi tutti e con ciascuno di noi.
Gesù è venuto a non farci sbagliare su Dio. E’ venuto a dirci che Dio non è quel tale che fa l’indifferente di fronte alle lacrime dei bambini innocenti, alle ferite delle ragazzine abusate, di fronte alle sofferenze delle persone omosessuali derise, o delle donne violentate. Il Dio di Gesù di Nazaret non è neppure un dio buonista o un vecchietto bacchettone, da ricattare o di cui approfittare a cuor leggero, o che tratti con la stessa bilancia la vittima e il suo carnefice.
Il Dio che mi mostra Gesù di Nazaret è quel Dio che sulla croce preferisce mille volte sacrificarsi e morire, lui, per l’uomo, anziché vedere l’uomo morire per lui. E che rinuncia a salvare se stesso pur di salvare tutti noi.
Cari amici tutti, io non so e non pretendo di dirvi perché Roberto, appena ventiduenne, sia morto, proprio mentre giocava a calcetto, in un parco, dopo gli interminabili giorni chiusi in casa per il lockdown, in quell’assolato sabato pomeriggio, della scorsa settimana, dal sapore dell’estate. Vi dico però quello che mi ha detto stamattina il suo papà. “Mio figlio è stato la prova lampante che al mondo non esiste solo il male, ma che esiste anche il bene. Tanto bene. La sua vita non è stata inutile. Mi ha aiutato a reagire alla morte prematura di mia moglie, sua mamma. Per me è stato un figlio che non solo è diventato il mio più caro e fedele amico, ma che ha aiutato anche me non solo ad essergli papà, ma a diventare suo amico vero e verace”.
E Dalila, da parte sua, ha confermato: “Roberto ha incontrato la felicità nel cercare la felicità degli altri. Non l’ho mai visto né triste né arrabbiato. Non si è mai ripiegato sul suo dolore di ragazzo orfano di madre. Ha gustato la vita e l’ha fatta gustare agli altri. E a me ha insegnato ad amare e a capire che la vita dipende da te se farla diventare bella o moscia”.
La vita è bella: questo è il testamento di Roberto. E’ bella se la vivi come un bel gioco. Con grinta, ma senza violenza. Con calore e passione. Con impegno e sacrificio. Sapendo valorizzare anche le sconfitte per imparare a perdere. E imparando a vincere non per umiliare gli altri ma per imparare insieme a vincere insieme la partita della vita.
Di questa partita ora per Roberto è finito solo il primo tempo. E per lui è cominciato il secondo: il tempo senza tempo, dove non c’è più né lutto, né dolore né pianto. Ma pace e gioia, e infinito canto.
Grazie, Signore, per avercelo dato. E continua a farcelo sentire vicino vicino.
A te, Roberto, diciamo semplicemente: Grazie e Ciao!
Chiesa parrocchiale di Vergiano – 29 maggio 2020
+ Francesco Lambiasi