Omelia per i 100 anni di don Probo Vaccarini
Capita, anche se una sola volta all’anno. Capita che solo in questa eucaristia feriale vengano proclamati due testi talmente appaiati da risultare paralleli, al punto da poterli definire ‘gemelli’. Il primo testo è il testamento pastorale di Paolo (At 20,17-27). Il secondo riporta quello che potremmo chiamare il testamento spirituale di Gesù (Gv 17,1-11). Si tratta di due ‘discorsi di addio’. Le circostanze sono analoghe. Gesù sta per lasciare il mondo; Paolo sa di avviarsi al martirio. Gesù si preoccupa dei suoi discepoli e li affida al Padre; Paolo si preoccupa dei pastori di Efeso ai quali ha affidato il gregge di Dio. Sia Gesù che Paolo vogliono preservarli dai pericoli e nello stesso tempo lanciarli verso la loro missione di evangelizzazione e di diffusione della Chiesa.
1. Ora entriamo anche noi nel cenacolo e teniamo gli occhi fissi su Gesù, il fiato sospeso nell’attesa: l’ora è arrivata, l’attesa è compiuta. L’amore immenso sta per farsi immenso dono.
Ecco la trasformazione che avviene nell’eucaristia: prima della mutazione “sostanziale” (il pane cambiato nel corpo, il vino nel sangue), nella vita di Gesù avviene una trasformazione “esistenziale”: una violenza totalmente ingiustificata viene dal Signore convertita in una donazione totalmente incondizionata. Di conseguenza la morte da evento di rottura si trasforma in evento di alleanza. Da segno negativo di opposizione diventa strumento positivo di comunione. Da maledizione si tramuta in benedizione.
Di qui scaturisce una limpida e solida spiritualità eucaristica, quale traspare dai quattro verbi della consacrazione: prese il pane, rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede. Queste parole riassumono la nostra vita sacerdotale di battezzati, ma, declinate al passivo, scrivono anche la nostra vita presbiterale. Come il pane eucaristico, anche tu, caro don Probo sei stato preso, benedetto, spezzato e dato.
“Presi”: non catturati. Siamo stati presi perché scelti. Scelti perché amati. Perché Lui è fatto così: ci ha incontrati per strada e ci ha guardati con amore non perché eravamo bravi e simpatici, buoni e adatti, ma siamo stati adeguati da Lui che ci ha scelti. Questo non significa che gli altri siano stati scartati: la scelta di Cristo non esclude nessuno, include tutti. Non è competitiva, ma compassionevole. Non forma élites di separati, ma crea comunione tra gli unici.
“Benedetti”: la nostra vita non è sotto il segno della cattiva stella del fato o del caso, ma è dentro il mistero di Dio, abbracciata dalla sua misericordia, che riscatta ogni più squallida miseria. Il nostro cuore di pastori è programmato per essere riempito dalla grazia di Dio, e diventare lo spazio per i suoi innumerevoli prodigi. Siamo stati immersi nella grazia perché i nostri fratelli vengano sommersi dalla tenerezza della divina, umanissima misericordia di Cristo.
“Spezzati”: i confratelli infermi ci insegnano che quando siamo appesi alla croce delle nostre impotenze e delle nostre disfatte, crocifissi con i chiodi della malattia, nell’agonia della speranza, nella paura che vede solo buio e vuoto, non siamo soli: Cristo non ha voluto schiodare se stesso proprio per attenderci sul calvario, ogni volta che anche per noi arriva l’ora nona. Il mistero della nostra vita di preti nasce da un Pane spezzato con cui entriamo in comunione, perché anche noi possiamo lasciarci spezzare e distribuire per la comunione dei fratelli.
“Dati”: la santa eucaristia ci ricorda che fare la memoria del Signore significa lasciarci donare a tutti, e diventare capaci di vivere come il buon Pastore: a cuore squarciato, a mani aperte, a braccia spalancate. La nostra più grande realizzazione sta nel dare noi stessi agli altri. Una vita donata, ma poi ripresa o trattenuta e ripiegata, è una vita sprecata. Ma vivere per Lui, come ha fatto Lui che ha dato la vita per il gregge, vuol dire vivere facendo vivere un popolo sacerdotale, una comunità eucaristica.
2. Questa è stata e continua ad essere la tua vita, caro don Probo. Una vita profumata di gioia. E’ la gioia di essere uomo, cristiano, prete. Anche noi pastori ci portiamo dentro un desiderio sconfinato di felicità, e anche a noi è stata promessa una gioia straripante, corrisposta con un tasso di interesse centuplicato, versata in caparra con una misura pigiata, scossa e traboccante.
E’ la gioia di essere peccatori perdonati e messaggeri di perdono. Lui, il buon Pastore, è fatto così. Non affida il ministero della misericordia ad esseri angelici e immacolati che si possono permettere il lusso di sentirsi perfetti. Consegna la sua tenerezza alle mani di poveri peccatori, per far loro provare la gioia di poter dire ad altri peccatori, anch’essi assetati di felicità, dove insieme potranno dissetarsi: alla fontana della divina misericordia.
E’ la gioia di servire alla gioia dei fratelli. Lui, il grande sacerdote, è fatto così: guarda dei poveretti come noi e ci sceglie per una missione da compiere nella vita: quella di un intera esistenza donata per amore. E’ la gioia di spendersi a fondo perduto, che non si lascia incrinare dall’ingratitudine, né si lascia frenare dagli scarsi risultati, né spegnere dal gelido vento dell’indifferenza.
E’ la gioia di una vita vissuta nella povertà, abbracciata per amore di Cristo povero e dei suoi vicari, i piccoli e i poveri, nella certezza che ogni bene e perfino i beni di Dio non possono mai oscurare Dio come unico bene della nostra povera vita. Nella castità di un cuore indiviso, che ha smesso di pensare a se stesso, che non offre corsie preferenziali per qualcuno – se non per i poveri – e non pianta cartelli con “divieto di accesso” per nessuno. Nell’obbedienza alla volontà di Dio, manifestata dal vescovo e serenamente abbracciata, senza condizioni e senza riserve. Senza programmarsi il futuro, senza puntare sulla propria realizzazione, senza monopolizzare la propria libertà, sapendo che per ardere senza bruciarsi, non basta spendersi: occorre donarsi.
E’ la gioia della Pasqua, la perfetta letizia, la gioia non ‘nonostante’ ma ‘attraverso’ il dolore, vissuto con un po’ di fede e con un pieno di amore. La fede che dà la forza di fidarsi più dell’Amore invisibile ma eterno che ripiegati nella sofferenza tangibile ma temporanea.
Caro don Probo, la tua vita ci dice che per mantenere viva la fiamma della gioia, vale la pena ricordare alcune ‘perle’ della sapienza tradizionale, che hanno aiutato molti in passato e possono tornarci utili ancora oggi. La prima: a noi è offerta la gioia di seminare, ma non è sempre garantita la gioia di raccogliere. La seconda: è il vangelo della vita fraterna che permette all’acqua viva della gioia di zampillare e rinfrescare anche il deserto spesso arido e torrido della quotidianità. Un’ultima perla: solo chi coltiva la rara pianta della gioia dentro di sé, ne può condividere i frutti con gli altri; solo chi ha imparato a ridere umilmente di sé, è in grado di far sorridere anche gli altri.
Infine due messaggi oggi tu ci consegni, caro don Probo. Il primo è rivolto a tutti i fratelli e a tutte le sorelle di fede. Oggi noi cristiani siamo chiamati a vivere in un mondo che non riesce più a trovare l’indirizzo di casa della gioia. D’altro canto è la gioia l’unico segnale di vangelo che anche i non credenti sono ancora in grado di decodificare e che può metterli seriamente in una crisi salutare. Papa Francesco ci scuote: “Non lasciamoci rubare la gioia! Un cristiano non può mai essere triste”.
L’altro messaggio riguarda noi presbiteri. Lo formuliamo con le parole incandescenti di san Paolo. E con te, caro don Probo, noi, pastori, in rappresentanza dell’intero presbiterio di Rimini, diciamo forte, con la solennità di un giuramento e con tutta la grinta che lo Spirito del Risorto ci mette in corpo: “Noi non intendiamo fare da padroni della vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24).
Rimini, Basilica Cattedrale – 4 giugno 2019
+ Francesco Lambiasi