Omelia del Vescovo per la Festa di San Giuseppe Lavoratore
Non mi sembra e non vi sembri eccessivo affermare che la celebrazione in corso qui oggi non solo arriverà a trasformare il pane nel corpo di Gesù e il vino nel suo sangue, ma già trasfigura questo enorme capannone in una cattedrale del lavoro. Una vera chiesa a norma, con l’alto soffitto realizzato con lamiere zincate, con le pareti ricavate da enormi scaffali impilati di sacchi di scagliola, con il pavimento lastricato in nudo cemento, e l’altare formato da due grandi pozzetti per la canalizzazione delle acque. Un’assemblea liturgica in piena regola, la nostra, in cui il mosaico vivente dei vostri volti lascia trasparire il Volto santo del nostro unico maestro e signore, Gesù, “il figlio del falegname”.
1. Oggi noi siamo qui per accogliere il vangelo del lavoro, lasciando illuminare questa imprescindibile esperienza umana dagli ampi fasci di luce che piovono dalla parola di Dio.
La prima luce ci proviene dal brano della Genesi (vedi prima lettura: Gen 1,26 – 2,3) e ci svela che il lavoro non è un castigo, ma un compito. In effetti il lavoro viene prima del peccato delle origini. E’ una volontà di Dio, il quale può fare tutto da sé, ma non vuole fare niente solo da sé. Il lavoro perciò è la risposta dell’uomo con-creatore all’incarico che gli viene affidato dal suo Dio creatore. Ma la risposta che sale dall’uomo a Dio è a vantaggio dell’uomo, non di Dio. Il lavoro è per l’uomo, non per gli dei, come nella mitologia greca.
Una seconda luce ci ricorda che il lavoro non blocca l’uomo in una condizione di miserabile inferiorità. Nel mondo greco il lavoro manuale era disprezzato e veniva lasciato agli schiavi e alle schiave. Solo l’uomo libero si dedicava all’attività intellettuale e politica. Eppure la Bibbia non esita ad attribuire a Dio il volto dell’agricoltore, del vasaio, del pastore. E’ esagerato allora affermare che lavorare, anche manualmente, è verbo divino?
Dal brano della Genesi si riceve una terza luce: l’uomo e la donna sono chiamati a “soggiogare la terra e a dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”. Ma occorre fare attenzione. Dominare non è depredare. E soggiogare non significa saccheggiare. La signoria dell’umanità sul mondo si esercita in un dominio che non è un potere arbitrario e dispotico. Come emerge da Gen 2,15, sottomettere la terra non vuol dire spadroneggiare su di essa, ma “coltivare” e “custodire” il giardino, non finire per trasformarlo in un deserto. Il dominio dell’uomo e della donna sul creato non è privilegio, ma responsabilità. Pertanto nel mondo del lavoro non ci potranno essere né sfruttatori né sfruttati.
Eppure il lavoro, dopo il peccato delle origini, rimane una realtà ambivalente. E’ la quarta luce, che ci viene dalla Parola. Certo il lavoro è dono, poiché esprime pur sempre il dominio dell’uomo su una creazione che Dio ha fatto per lui. Ma è anche fatica: esprime il desiderio sempre insoddisfatto dell’uomo, il quale non può rinchiudersi nel mondo e nei suoi prodotti, in cerca di una pienezza che non sta nelle cose create. Il lavoro è il segno di una potenza dell’uomo, al quale Dio non si stanca di affidare la missione di custodire e coltivare il giardino del mondo. Ma è anche il segno di una insufficienza che è nel DNA dell’uomo, incapace da solo di darsi una pienezza che rimane trascendente, e può essere attesa solo nella speranza.
E Gesù quale ‘valore aggiunto’ apporta alla realtà del lavoro umano? Il fatto che “il figlio del falegname” abbia lavorato per la gran parte della sua vita ci dice – è la quinta luce – la solidarietà di Dio con il suoi figli, chiamati alla magnifica e drammatica esperienza del lavoro. E nel contempo ci indica pure il modo per solidarizzare con Gesù, condividendo la sua fatica e la sua redenzione.
Infine, il lavoro deve sottomettersi a due primati ineludibili e convergenti. Innanzitutto il primato della Parola: è la penultima luce. Significativo l’episodio di Gesù, accolto in casa di Marta e Maria (Lc 10,38-42). Nel rimprovero che il Maestro rivolge a Marta, ricorre il verbo affannarsi (gr. merimnàn), già usato da Gesù nel discorso della Montagna (Mt 6,25.31): “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Il lavoro si snatura quando si trasforma in affanno. Bisogna dunque fare attenzione al rischio del troppo lavoro, perfino se fosse intrapreso per far mangiare Gesù (vedi Marta). Perfino per far mangiare i poveri, come le vedove della prima comunità cristiana (At 6,2). L’ascolto della parola di Gesù (vedi Maria) e il servizio della Parola (vedi i Dodici: At 6,4) devono rivestire sempre un primato assoluto.
L’ultima luce ci richiama il primato della carità. Il fine del lavoro non è il profitto individuale, ma il bene comune. E il rispetto di questa finalità, assolutamente imprescindibile e insuperabile, si riscontra nell’attenzione prioritaria ai poveri. Come afferma Paolo nel discorso ai presbiteri di Efeso: “Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli” (At 20,33s). E’ il messaggio esplicitato in Efesini 4,28: “ Ognuno lavori con le proprie mani, per farne parte con chi si trova nel bisogno”.
2. Da ultimo vorrei dedicare almeno un pensiero ad alcune piaghe che affliggono la nostra Italia del lavoro. Il primo pensiero va alle duecento persone morte per gravi incidenti sul lavoro, dall’inizio dell’anno. Vorrei anche ricordare il dramma della nostra disoccupazione giovanile, la più elevata in Europa dopo la Grecia. Inoltre non si può evadere da una seria e motivata riflessione sulla piaga della evasione fiscale, il cui livello raggiunge il picco più alto in Europa. Basta con questa Italia spaccata in due: chi paga fino all’ultimo centesimo e chi non paga niente.
Infine preghiamo e operiamo per l’integrazione europea. Ha ragione il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: il vento del ‘sovranismo’ non può e non deve minacciare l’esistenza e il cammino della UE. Solo in un contesto comunitario possiamo affrontare e vincere le sfide globali, gestire i flussi migratori, governare con equilibrio le sfide tecnologiche. Abbiamo bisogno di una Europa nuova, in difesa dei diritti del lavoro e di un rafforzamento dello stato sociale.
Abbiamo bisogno di una Europa libera, unita, solidale.
Sant’Arcangelo, Stabilimento “Fratelli Anelli”, 1 maggio 2019
+ Francesco Lambiasi