Omelia del Vescovo per la Messa del Giorno
E’ un amore eccedente e davvero eccessivo quello che ha dettato l’agenda di Dio Padre per realizzare l’evento assoluto dell’incarnazione di suo Figlio sulla terra. Una carità ardente e tanto ardita. E’ vero: la parola agape (amore di carità) non ricorre nella sequenza evangelica appena proclamata, il Prologo, una pagina tra le più dense e le più intense del quarto Vangelo. Ma c’è un versetto che fa un po’ da base musicale per la melodia del brano che si sviluppa, maestoso e drammatico, con i suoi ‘acuti’ verticali e, in contrappunto, i suoi ‘bassi’ cavernosi. Quel versetto si incontra nel tratto preciso in cui l’evangelista si incanta trasognato e canta a gola spiegata: “A quanti hanno accolto il Verbo, (Dio Padre) ha dato il potere di diventare figli di Dio”.
1. Diventare figli di Dio! Ma ci rendiamo conto?! Non ci sono parole per interpretare un messaggio tanto vertiginoso. Ma ci può venire in aiuto un altro passo dello stesso Giovanni: “Guardate quale grande amore ci ha dato il Padre: ci chiama figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1). Sono parole percorse da un brivido di stupore, quasi di inimmaginabile sorpresa. Al punto che Giovanni sente il bisogno di attirare la nostra attenzione: “Guardate”. “Guardate quale grande amore ci ha donato il Padre!”. E’ davvero un grande amore, talmente grande da rimanerci basiti. Nel suo benevolo, gratuito disegno di amore, il Padre ci ha benedetti in Cristo, ci ha pre-scelti, pre-giustificati, pre-destinati ad essere suoi figli adottivi in Cristo prima della creazione del mondo (cf Ef 1,3ss). Più amati di così! Dio Padre non ha mai pensato a Gesù come a un privilegiato solitario che non voglia far parte a nessuno delle sue prerogative, ma come il “primogenito tra molti fratelli”.
Figli di Dio non è una commovente metafora, ma una condizione reale, una realtà attuale, niente affatto virtuale, da prendersi alla lettera: “lo siamo davvero”. Ma allora perché san Paolo parla di figli adottivi? “Voi – scrive l’Apostolo ai cristiani di Roma – non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!” (Rm 8,15). In realtà l’adozione di cui parla Paolo si realizza, in un certo senso, in ordine inverso rispetto alle adozioni umane. In queste ultime l’iniziativa dell’adozione è del papà e della mamma e, se essi hanno dei figli naturali, cercano di aiutarli ad accogliere il fratellino o la sorellina che si aggiunge alla loro famiglie dall’esterno. Qui, al contrario, è stato il Figlio primogenito, Gesù, il Fratello maggiore, ad adottarci e a “presentarci al Padre in un solo Spirito” (cf Ef 2,18). Pertanto siamo diventati prima fratelli e poi figli, anche se le due cose sono avvenute contemporaneamente nel battesimo, il nostro Natale.
Ma si dà un’altra differenza, ancora più marcata, tra i due tipi di adozione. L’adozione umana è in se stessa un fatto giuridico. Il figlio adottivo assume il cognome, la cittadinanza, la residenza di coloro che lo adottano, ma non ne condivide il sangue. Non ci sono stati concepimento, doglie e travaglio del parto. Per l’adozione soprannaturale non è così. Dio non ci trasmette solo il nome di figli, ma anche la sua vita intima, il suo stesso Spirito. Per il battesimo, in noi scorre la stessa vita di Dio. “Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9).
2. Diventare figli di Dio! Ma ci rendiamo conto della vita nuova che sboccia a Natale?! L’adozione divina non crea una relazione ‘diminuita’, slavata, rispetto alla generazione fisica. Al contrario, crea un vincolo ancora più forte. Il figlio naturale possiede lo stesso sangue del padre, la stessa vita della madre. Però, una volta nato, quello che era un tempo il sangue del padre e della madre, ora è nel figlio. Il figlio può vivere separato dai genitori. Anzi, per vivere, ha bisogno, dopo nove mesi, di separarsi dalla madre. Non così sul piano spirituale. Qui la stessa vita, lo stesso Spirito, scorre simultaneamente in noi e in Cristo. Non dobbiamo separarci da lui per vivere. Altrimenti moriamo sul colpo.
E’ lo Spirito santo che ci contagia gli stessi sentimenti di Cristo Gesù e ci trapianta gli occhi del suo cuore per permetterci di vedere il Padre come lo vede lui: da Figlio. Allora Dio non ci appare più come un gelido guardiano della Legge, come un nostro duro, accanito antagonista, o come il nemico giurato della nostra felicità. Al contrario, Dio ci appare come il nostro più potente alleato, interamente favorevole alla nostra sorte e del tutto benevolo con noi. Così non lo possiamo più pensare come padrone, ma solo e sempre come padre. E noi non ci sentiamo più schiavi, ma veri figli. Non più come sudditi tremanti, ma come collaboratori ‘co-protagonisti’. Allora la fiducia sboccia e scaccia la paura. E al posto dell’assoggettamento fiorisce l’abbandono, come di un “bambino in braccio a sua madre”. Sgorga così il fiotto del sentimento filiale e sprizza di getto lo zampillo della vita nuova. “Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre!” (s. Ignazio Ant.). Una santa pregava così: “Sono sua figlia, me l’ha detto Lui. O infinita dolcezza del mio Dio! O parola così a lungo desiderata! Parola la cui dolcezza supera ogni dolcezza! Oceano di gioia! Figlia mia! L’ha detta il mio Dio! Figlia mia!” (s. Margherita di Cortona).
3. Diventare figli di Dio! Ma ci rendiamo conto?! Il battesimo ci ha resi effettivamente ed efficacemente “partecipi della natura divina” (2Pt 1,4). Pertanto la nostra vita diventa una ‘prolunga’ della vita trinitaria sulla terra. Un’autentica vita filiale e fraterna. Il primo caposaldo della fraternità cristiana è la rivelazione di Gesù che Dio è Se siamo figli dello stesso Padre, siamo fratelli di Cristo e tra di noi. La fraternità si fonda ugualmente sulla presenza di Cristo, il quale è l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco. L’immagine sta ad indicare che Cristo è il nuovo alfabeto-base della fraternità evangelica. Lo Spirito Santo ‘mette in rete’ di comunione le persone, rendendole come le tre Persone divine: uguali, distinte, unite. Non le une senza-sopra-contro le altre. Ma le une con-dentro-per le altre. C’è una vita più umana di quella cristiana? Il Natale ci ricorda che non siamo condannati a competere, combattere, confliggere. Possiamo – anzi non possiamo non – comunicare, condividere, convergere. Tutti i giorni. Perché ogni giorno sia Natale.
+ Francesco Lambiasi