Omelia del Vescovo nella Messa della Notte di Natale
Il Natale non è tanto una dolce ninna-nanna da cantare. Ed è infinitamente di più di una struggente storia da raccontare. Non è neppure un astratto, impalpabile valore, pur nobile, ma assai arduo da cogliere e incarnare. E’ piuttosto una presenza da accogliere. Una sorpresa da lasciarsene stupire. Il Natale è un bambino da abbracciare.
1. In quella notte santa Dio ha fatto di tutto, di più. Non solo ci si è fatto incontro e si è messo a camminarci accanto. Ha fatto di più. Ci si è fatto intimo. A Betlemme, in quel lembo della Giudea, l’orizzonte di Dio ha baciato l’orizzonte dell’uomo, come il cielo azzurro lambisce la catena opaca dei monti. Lì l’Eterno si è immerso nel tempo. L’Immenso si è racchiuso nel frammento. L’Onnipotente si è reso onni-impotente.
In verità questo Natale 2018 ci raggiunge a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione del rapporto Censis che ci ha fotografato un’Italia ‘brutta e cattiva’, un Paese rannicchiato a riccio dietro il rancore più sordo e la cattiveria più cupa. Perché ha ormai smarrito il senso del proprio futuro, rabbuiato da un orizzonte che non promette crescita se non dello “zero virgola”. E’ il ritratto di una società appiattita e spompata, con il 63% degli italiani convinti che tutto il male sia colpa degli stranieri e dei migranti, al punto di non volerli neppure come vicini di casa.
Eppure in questa notte santa sento salire dal vostro buon cuore una domanda insistente: Vescovo, in questo black-out generale quale buona notizia hai da recapitarci? Io, fratelli, sorelle, amici, non ho né oro né argento. Non ho una ricetta magica da scodellare. Non ho competenze economiche o politiche da esibire. Ma quello che ho vi do. Il Signore mi manda a voi per recapitarvi il messaggio dell’angelo ai pastori: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia: oggi, nella città di Davide è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”.
2. Il vangelo di Luca aveva appena raccontato del cielo aperto sui fuochi dei pastori, al loro bivacco di notte, quando la gloria del Signore lampeggiò dall’alto e “li avvolse di luce”. I primi a rimanerne scioccati furono proprio loro, per la paura che quel balenare di luce fosse foriero di un avvertimento funesto. Del resto non glielo avevano sempre detto e ridetto in tutti i toni che gente come loro – appartenenti alla razza dei malvisti e scomunicati, perché sospettati di furto di bestiame (abigeato) – non si meritavano se non fulmini dal cielo? E invece l’angelo del Signore li rassicura: “Non abbiate paura!” perché quel bambino “avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia” non è un bambino in più, come quando nasceva uno dei loro bambini. Si trattava addirittura del “Salvatore, Cristo Signore”. Eppure – cosa da stropicciarsi gli occhi – l’angelo aveva annunciato: “E’ nato per voi!”. Per voi che non contate per niente e per nessuno. Per voi ai quali è stata insegnata la religione di un Dio perennemente arrabbiato. Ed è stato precluso l’accesso al tempio di Gerusalemme.
Quando si dice la paura. Una parola, questa, che fa il suo ingresso già fin nelle prime righe della Bibbia come paura di Dio. All’uomo – l’Adamo, il terrestre – che, aveva ancora tra i denti il frutto proibito e si era nascosto insieme alla sua donna in mezzo agli alberi del giardino – Dio disse: “Dove sei?”. Ed egli rispose: “Ho udito la tua voce, ho avuto paura e mi sono nascosto, perché sono nudo”. Ma solo una lettura ristretta e riduttiva di questo brano ci fa rimanere bloccati al palo di pensieri impropri e deviati su Dio, con quell’angelo dalla spada fiammeggiante che scaccia i progenitori dall’Eden. Volti dolenti, spalle ricurve, brividi di vergogna. E invece basta andare un poco oltre nella lettura del brano per scoprire un Dio tenero e compassionevole che cuce loro addosso affettuosamente tuniche di pelle, restituendo loro una dignità perduta. Non ho più paura, anzi mi stupisce e mi commuove un Dio così, che non apre i suoi cieli per scaricare fulmini e saette, ma per inseguire i suoi figli e rivestirli di misericordia e di tenerezza.
3. Questo è il Dio di Israele. Non un dio accigliato e imbronciato che vuole incutere paura e provocare tremiti di sacro terrore. E’ un Dio che non si stanca di ripetere, come una interminabile litania: Non temere, Abramo. Non temere, Mosè. Non temere, Davide. E’ il Dio del Vangelo: Non temere, Giuseppe, della casa di Davide. Non temere, Maria: tu hai trovato grazia presso Dio. E’ il Dio-Padre di Gesù di Nazaret, che non vuole schiavi. Vuole sempre e solo figli. Non è un faraone implacabile. Comportarci da schiavi con un Dio che è Padre-Abbà non rallegra affatto il suo cuore. A un padrone fiscale e inflessibile un dipendente è costretto a sottomettersi e assoggettarsi. A un padre dolce e buono un figlio può affidarsi e abbandonarsi.
Questo è il Dio che si rivela nel presepe. Non è un dio sadico e masochista. Non vuole il dolore, vuole l’amore, perché ama la vita. Il presepe, come anche il Calvario, non è il segno di quanto Dio ami la sofferenza, ma di quanto Dio ama. Punto. Non ama la sofferenza. Ama i sofferenti, perché suoi figli. Solo un Dio che non ci mette paura può aiutarci a vincere altre due paure che spesso ci attanagliano. Una è la paura della morte. Per convincerci, ci basti questo passo tratto dalla Lettera agli Ebrei: “(Gesù) mediante la propria morte ha potuto distruggere il demonio, che ha il potere della morte. E ha potuto liberare quelli che, per paura della morte, vivevano sempre come schiavi” (Eb 2,15).
Un’altra paura è la paura dell’altro, ci basti questo racconto. Un vecchio rabbino domandò una volta ai suoi allievi da che cosa si possa riconoscere il momento preciso in cui finisce la notte e comincia il giorno. “Forse quando, guardando da lontano, si può distinguere con facilità un cane da una pecora”, ripose un discepolo. “No” disse il rabbino. “Forse – rispose un altro – quando si può distinguere da lontano un melo da un pero”, rispose un altro. “No” disse il rabbino. “Ma quando allora?” domandarono in coro gli allievi. Il rabbino concluse: “Quando, guardando il volto di una persona qualunque, anche a distanza, riconosci il fratello o una sorella. Fino a quel punto è ancora notte nel tuo cuore”.
Sorelle, Fratelli, “è ormai tempo di svegliarci dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino” (cf Rm 13,11s). Finisca la notte. E cominci il giorno.
Rimini, Basilica Cattedrale, 25 dicembre 2018
+ Francesco Lambiasi