Un germoglio di ‘perfetta letizia’
Omelia per la memoria della beata Maria Rosa Pellesi
Più in là. Sempre più in là. Permettetemi di introdurmi con una citazione di Eugenio Montale: “Sotto l’azzurro fitto del cielo / qualche uccello di mare se ne va / né sosta mai. / Perché tutte le cose portano scritto: / Più in là”. Dobbiamo andare sempre oltre. Sempre più in là. Non facciamo in tempo a leccarci le labbra per una gioia inattesa. Abbiamo appena realizzato un sogno a lungo accarezzato. Siamo con il cuore alle stelle per avere finalmente raggiunto una meta da tempo prefissata, che ben presto ogni appagamento viene fatalmente ossidato dalla ruggine della delusione. E la spina dell’insoddisfazione finisce per pungere di inquietudine amara ogni limite appena superato. Mentre i traguardi a stento tagliati non ci danno tempo di respirare che immediatamente dobbiamo riprendere ‘armi e bagagli’ e rimetterci in viaggio. Siamo forse fatti per non trovare mai pace? Siamo creature sbagliate, con qualche incorreggibile difetto di fabbrica?
1. Ma dove stiamo andando: verso la catastrofe finale? No, assolutamente no, ci ha appena detto Gesù: “Risollevatevi, alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina!”. Il nostro Maestro non vuole spaventarci. Vuole scuoterci, svegliarci. Vuole solo smuoverci e rimetterci in cammino. E’ vero: oggi precipitano tanti valori, come stelle cadenti a grappolo. Scricchiolano certezze. Si coltivano solo interessi individuali e passioni autoreferenziali. Si intrecciano connivenze e complicità a delinquere. Qualcosa si è rotto dentro e fuori di noi. Ha ragione il nostro umanissimo, divin Maestro: i nostri cuori si sono “appesantiti in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Al punto che alla vigilanza abbiamo preferito il letargo. All’altruismo abbiamo sostituito il mito perverso dell’individualismo. Al posto di Dio abbiamo intronizzato il seducente, perfido idolo dell’Io. Succede oggi. Succedeva ieri. E succederà anche domani.
Eppure il profeta Geremia, vissuto con la consapevolezza di assistere alla fine di un mondo, ci ha annunciato che l’ultima parola della storia non toccherà alla forze distruttrici del male, ma alla vita. E sul tronco secco dell’albero di Davide spunterà un germoglio, premessa e promessa di un futuro radioso. All’interno di un mondo decrepito che corre verso la catastrofe, la speranza fa intravedere l’avvento di un mondo nuovo. E’ questa la limpida, gioiosa certezza che Paolo registra in una delle sue prime e più care comunità: la chiesa di Tessalonica.
E’ solo alzando il capo che riusciamo a vedere, dentro il marasma del tempo presente, i germogli della speranza. Giovani che danno spazio al proprio bisogno di riscoprire la bellezza della fede: questo è un germoglio di speranza. Ragazze che si innamorano – con amore esclusivo, ma non escludente – di Gesù, e consacrano la loro vita al servizio dei poveri e alla preghiera: questo è un germoglio di speranza. Ragazzi e ragazze che scelgono di servire con impegno il cammino di fede dei giovanissimi della propria comunità: questo è un germoglio di speranza. Giovani coppie che aprono la loro casa a giovani profughi, bisognosi di tutto: questo è un germoglio di speranza. Giovani che vogliono sperimentare con la propria vita che la non violenza è l’unica via per ottenere una pace vera: anche questo è un germoglio di speranza. Ecco allora dove sta andando il mondo: non verso il baratro del nulla, ma verso l’incontro con il Signore che viene. E’ l’Avvento.
2. Anche Sr Maria Rosa Pellesi è stata un germoglio di speranza. Il suo segreto è tutto racchiuso in una parola: vocazione. Una parola verticale, vertiginosa, che ha gonfiato la vela della piccola barca di questa donna innamorata e felice. Vocazione, cioè chiamata alla santità. Nel momento di congedarla per venire in convento, qui a Rimini, la mamma le aveva detto: “Va’ pure e fatti santa, perché solo per farti santa puoi lasciare la tua mamma”. Santità era questo per lei: chiedere a Gesù di “costruire sulle macerie della mia miseria, quel capolavoro che egli si è prefisso fin dall’Eternità”. E’ vero: solo l’Infinito può saziare la sete che abita quel “crepaccio assetato d’infinito” (Kierkegaard) che ogni giovane cuore si porta dentro, così che l’anima diventi una “conchiglia ripiena dell’eco del mare infinito di Dio” (Turoldo). La giovanissima Bruna Pellesi era fatta per le alte vette. Per quei picchi d’amore che si slanciano su abissi di dolore.
Ma appena qualche anno dopo la professione religiosa, a 28 anni si ammala di una grave forma di TBC. Della sera che venne ricoverata in sanatorio – a quel tempo, una sorta di lazzaretto – scriverà: “Ho iniziato la mia vita sanatoriale piangendo; ma ho chiesto al buon Dio di terminarla, cantando le sue misericordie”. Di fatto vi trascorrerà ben 24 anni, completamente immersa nella volontà di Dio. All’inizio del suo penoso calvario ha lasciato scritto: “Il Signore dispone sempre le cose in bene, sia benedetto in eterno. Se Lui vorrà guarirmi, col suo aiuto lavorerò a gloria sua. Se vorrà farmi soffrire nella malattia, soffrirò per Lui. E se vorrà il sacrificio della mia povera vita lo farò con gioia”.
Ed ecco come ricorda la sua prima emottisi. Era il 25 marzo del 1955, festa dell’annunciazione di Maria: “Ero in procinto di andare in chiesa per assistere alla santa Messa: mi arrivò di sorpresa uno sbocco di sangue e di liquido così forte che mi pareva di morire. Questo piccolo avvenimento acuì in me il bisogno di liberarmi da me stessa per immergermi più completamente in Dio”. E così il 5 agosto successivo fa voto di “abbandono amoroso, gioioso, in condizionato alla volontà di Dio” mentre le si spalancano orizzonti inesplorati che le permettono di vivere il dolore come esperienza d’amore per la salvezza delle anime, tanto da scrivere al suo padre spirituale: “Lei non si meraviglierà se le dico che soffro tanto; ma crederà pure che sono felice, tanto, tanto, tanto felice”. E al suo padre spirituale si descrive “quasi stordita di gioia”, e gli raccomanda: “Preghi per me e dica a Gesù che voglio dargli tutto, tutto, tutto”.
La sua tormentata vicenda, in cui amore e dolore erano stati strettamente intrecciati, si concludeva il 1° dicembre 1972, mentre le suore intorno al suo letto intonavano, su sua esplicita richiesta, il Magnificat, canto di gioia e di gratitudine che lei amava particolarmente, in quanto espressione di quella perfetta letizia che sola può derivare dall’abbandono al disegno di Dio e che l’aveva spinta a scrivere: “Io avrei voglia di gridare al mondo la bontà, la misericordia, l’amore di Dio per le anime che riconoscono il proprio nulla e confidano in lui. Oh quale felicità essere convinti della propria incapacità e abbandonarsi all’onnipotenza di Dio, alla bontà di Gesù. Quale felicità sentirsi perdonati e amati dal Padre celeste. Quale felicità sapere che Dio c’è”.
Suor Maria Rosa di Gesù è stata un germoglio di speranza e di perfetta letizia che ancora continua a fiorire e a fruttificare. In suo nome vorrei consegnare ad ognuna di voi, Sorelle Missionarie di Cristo, e a tutti voi Fratelli e Sorelle presenti, soprattutto giovani, questo augurio di Avvento: “Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita” (papa Francesco).
Rimini, chiesa di s. Agostino, 1 dicembre 2018 –
+ Francesco Lambiasi