Di un popolo di re-servi, non di sudditi-schiavi
Omelia del Vescovo per il conferimento dei ministeri
Pilato e Gesù: due storie, due strade, due strategie del tutto diverse. Di più: due sistemi, due mondi, due universi, in tutto e per tutto irriducibilmente contrapposti. Ponzio Pilato è l’uomo del potere. Rappresenta la massima autorità in terra di Giudea. Il trinomio delle sue parole programmatiche è composto dai verbi: avere, apparire, dominare. Il suo sogno: il potere per… ‘potere sempre di più’. Un potere inesorabile, dispotico, feroce. Pilato guarda con occhi strabuzzati quel reuccio da strapazzo, che gli hanno trascinato davanti, e lo apostrofa con fare spavaldo: “Non sai tu che io ho il potere di darti la morte?” (cf. Gv 19,10).
1. Di fronte a Pilato Gesù non arretra di un millimetro: conferma di essere non un re, ma il Non il re di questo mondo, ma re in altro modo, totalmente alternativo, quello di esercitare il potere: non come dominio, ma come servizio.
Gesù rappresenta – rende presente – Dio sulla terra. Ma il suo Dio è Padre, Abbà. Non è un Giove ripiegato, perennemente arrabbiato, indisponente e insopportabile, sempre pronto a scagliare il suo fascio di saette contro chi si mette di traverso sulla strada del suo implacabile dominio. I verbi di Gesù formano una trilogia generosa e gratuita: amare, donare, servire. Il Maestro di Nazaret aveva ripetutamente dichiarato ai suoi discepoli: “Non sono venuto per farmi servire, ma per servire e dare la mia vita per la salvezza di tutti” (cf Mc 10,45).
Servire, verbo divino. Il vecchio catechismo diceva che noi siamo stati creati per “conoscere, amare e servire Dio”. Ma questo è solo il rovescio della medaglia. Se è vero che Dio è amore e che ci ha amati per primo, allora ne segue che noi siamo stati creati da lui, per essere da lui conosciuti, amati e, perfino, serviti. Un Dio a servizio della mia felicità: verità vertiginosa e abissale, certezza strabiliante e commovente. Servo: il nuovo nome di Dio. Nome sorprendente, e del tutto imprevedibile!
Per venire a servirci, il Figlio di Dio è disceso dal cielo e si è piegato in due, davanti ai suoi discepoli. Il gesto di lavare i loro piedi non è semplicemente un gesto di umiltà, un buon esempio attraente, un bel segno pedagogico e coinvolgente. Di più: è un gesto ‘teofanico’, rivelatore della realtà di Dio. Prima di dirci cosa dobbiamo fare noi, ci dice cosa ha fatto Dio per noi. E così ci rivela come è fatto Dio. Le mani di Gesù sono le stesse mani del Dio che si mette nelle nostre mani. Davvero un Dio capovolto. Il Verbo si è fatto carne. Da Dio si è fatto schiavo. Da ricco si è fatto povero. Da Signore si è fatto obbediente, fino alla croce. Questo è il movimento adeguato al servo: non salire, ma discendere. Non innalzarsi, ma abbassarsi. Non imporsi per dominare, ma sottoporsi a servire, con mani tenere e cuore spalancato. Ritorniamo al confronto Gesù-Pilato. Per Gesù l’autorità non è, come per il romano Pilato, un trono e una corona, ma un catino e un asciugamano. Non è un titolo di superiorità, ma di responsabilità. Non uno scettro, ma una croce.
Permettetemi a questo punto di citare s. Agostino. Rifacendosi all’evento della trasfigurazione, si rivolge a Pietro: “Ora il Signore stesso ti dice: Scendi a terra, Pietro, scendi giù a servire. E’ discesa la Vita per farsi crocifiggere. E’ disceso il Pane per soffrire la fame. È discesa la Sorgente per patire la sete. È disceso chi era la Via per sottoporsi alla stanchezza lungo la via. Non cercare il tuo interesse. Coltiva la carità. Perverrai allora a quella eternità in cui troverai la felicità”.
2. Servizio: è la parola che tutti vi comprende, carissime sorelle e carissimi fratelli tutti, che state per ricevere il ministero della Parola come lettori e il mandato come ministri straordinari della parola di Dio. O che state per ricevere il ministero dell’altare come accoliti e ministri straordinari della comunione eucaristica. Voi lo sapete: i servizi ecclesiali stabili e pubblicamente riconosciuti vengono chiamati ministeri.
A che servono questi servizi o ministeri? La comunità ecclesiale è come un organismo vivo e operante: “In un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione. (…) Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi” (Rm 12,4-6). “Dio ha composto il corpo” in modo che “le varie membra avessero cura le une delle altre” (1Cor 12,24-25). Tutti siamo abbastanza poveri per dover ricevere. Tutti abbastanza ricchi per poter dare.
Ora, più che parlare dei vari ministeri – cosa che faremo tra poco, quando di volta in volta vi saranno conferiti – vorrei passare a tracciare qualche linea di spiritualità del servizio.
È la spiritualità della corresponsabilità, del sentire la responsabilità verso la propria comunità. Una comunità da far crescere, da rendere più bella e credibile, mettendo a disposizione carismi e talenti, senza mai lasciarsi deviare da smanie di protagonismo né inibire da delusioni, né bloccare da amare incorrispondenze e scottanti incomprensioni.
È la spiritualità del sacrificio, di chi si sottopone al logorio della routine, di chi si espone all’ingratitudine, di chi non si lascia frenare dal senso di inutilità per gli scarsi risultati, né paralizzare dal gelo dell’indifferenza altrui.
È la spiritualità della gratuità, di chi è consapevole che a noi non è chiesto il risultato, ma l’impegno e la tensione a fare le cose al meglio. A noi è richiesto di seminare e coltivare, ma non sempre è dato di raccogliere i frutti, tutti e subito.
È la spiritualità della tenerezza, perché una carezza non la si dimentica mai. Il servizio svolto con garbo e mitezza, senza pretendere subito dei riscontri, è quello che resta come ‘tatuato’ nella memoria del cuore.
È la spiritualità del vangelo della carità, che permette all’acqua viva dell’amore di dissetare anche il deserto spesso arido e torrido della quotidianità.
È la spiritualità della gioia, che viene dal constatare – con umile, grato stupore – la crescita altrui, grazie al proprio tenace, gratuito sudore.
Chi coltiva la gioia dentro di sé, la può riversare sugli altri, come un’anfora stracolma d’acqua che trabocca generosamente e spontaneamente.
Chi dà con gioia, sviluppa all’ennesima potenza la propria gioia.
Chi dà con gioia, assicura al proprio lavoro la migliore garanzia di portare molto frutto a suo tempo.
Rimini, Basilica Cattedrale- Solennità di Cristo Re, 25 novembre 2018 –
+ Francesco Lambiasi