Omelia per l’ordinazione diaconale di 10 diaconi permanenti
Chi è il diacono? Letteralmente è “uno-che-serve”. La risposta è esatta, ma ha bisogno di essere chiarita e ulteriormente esplorata. Intanto c’è da dire che ‘diacono’ è attributo, non sostantivo. Il sostantivo è ‘cristiano’. In linguaggio matematico si potrebbe dire che ‘cristiano’ è la base, diacono è un ‘esponente’. Il diacono è un cristiano-che-serve. Ma allora chi è il cristiano? Il vangelo di oggi ci aiuta a rispondere così: il cristiano è un peccatore pentito e ‘misericordiato’, come il pubblicano.
1. Il contrasto pennellato nella parabola del fariseo e del pubblicano è a taglio netto. Già la postura del corpo rivela il diverso atteggiamento del cuore. Il fariseo è “dritto in piedi”, e prega tra sé, o meglio inizia a pregare (“O Dio…”), ma il volo del cuore non fa in tempo a prendere quota, che subito precipita in picchiata, e il tizio si ritrova a parlare “tra sé” – lett. “davanti a sé” – compiaciuto e ripiegato: “Ti ringrazio che non sono come gli altri”. La patologia di questa presunta preghiera è seria e preoccupante: come si può “pregare rivolgendosi a se stessi” e fissandosi in quella monotona, petulante litania di “io… io… io…”? Come si può “ringraziare Dio” – lett. “fare eucaristia” – mettendo il proprio io al posto di Dio e disprezzando – lett. “azzerando” – gli altri? Succede sempre così: la presunzione veste costantemente la toga del giudice e fa sedere sempre e solo gli altri sul banco degli imputati. Ma c’è di più. Il cancro che aggredisce mortalmente questa farsa di preghiera è l’ipocrisia. Nel colmo della sua patetica, sacrilega sceneggiata, il fariseo arriva a vantare spudoratamente i propri titoli di merito e a condannare gli altri senza appello. Centrato com’è sul proprio io, il fariseo si giustifica da sé. Ma è autentica una religione ridotta a fredda contabilità, senza cuore e senza amore?
Il pubblicano invece è “fermo a distanza”, con gli occhi bassi, si batte il petto e gli bastano quattro o cinque parole per cesellare una perla di preghiera. “O Dio, sii misericordioso con me peccatore”. Nel dirsi peccatore, questo vorace esattore delle tasse, non finge, non recita. Dice la verità: è un poco-di-buono, iscritto sul libro-paga dei romani, ed è esoso nell’esigere i tributi. La sua umiltà consiste nel riconoscersi in debito con Dio e nel rimettersi con fiducia alla sua misericordia. Questa misericordia non si merita: Dio non si compra, non si ricatta. Dio si ama e si accoglie. Secondo la logica evangelica, solo Dio è giusto e perciò solo lui ci può giusti-ficare, farci giusti. Chi si autogiustifica, si autocensura dalla misericordia di Dio. Con Dio non si fa mercato. Si fa alleanza.
Il linguaggio della parabola è trasparente. Gesù non la racconta contro, ma per – cioè a favore di – alcuni sedicenti giusti, arroccati nella loro giustizia (Lc 18,9). Per offrire la possibilità di trasformare la loro giustizia in dono, non più in rivalsa. Per convertire la loro obbedienza in gioia, non più in un pesante dovere. Per tramutare la loro fatica in solidarietà, non più in una ragione di separatezza altezzosa e in una accanita pretesa di ricompensa.
2. Il messaggio della parabola si può concentrare in una semplicissima parola: gratuità. Parola sacrosanta, nel ‘manuale’ del diacono. Ne fissa l’identità e ne tratteggia lo spirito. Non si può essere diacono, un servo-che-serve, senza gratuità. Non puoi vivere da diacono se punti sul tuo interesse, se ti illudi circa i tuoi presunti meriti, se ti accanisci ad aggiornare con puntiglio maniacale la colonna dei tuoi crediti immaginari, anziché quantificare onestamente la somma dei tuoi debiti effettivi. La tua diakonia non può essere corrosa dalla ruggine del tornaconto. Non può venire s-bilanciata dalla partita doppia dei costi e dei ricavi. Non puoi essere un diacono fecondo e felice se miri unicamente alla tua L’autorealizzazione appare oggi come una meta irrinunciabile, un mito ineludibile, un bisogno inderogabile. Ma Gesù ci dice: “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso”, ossia “la smetta di pensare a se stesso”. Tu, fratello, ti realizzi non quando servi te stesso, ma quando ti butti a capofitto e senza rete di protezione nel servizio di Dio e dei fratelli. Proprio come Gesù, venuto “non per essere servito, ma per servire e dare la propria vita” (Mc 10,45).
Ma qual è il fine del servizio-diakonia del diacono? Teniamo presente un dato imprescindibile: il fatto che nella celebrazione eucaristica spetti al diacono il compito di proclamare la pagina evangelica, rende evidente come tra i compiti dei diaconi permanenti l’annuncio del Vangelo rivesta una importanza primaria e insostituibile. L’esercizio autorevole di questo annuncio compete ai diaconi nella catechesi, nella predicazione, nell’omelia. In particolare essi sono i ministri qualificati nell’esercizio del “primo annuncio”, rivolto a giovani e adulti che desiderano scoprire o riscoprire la bellezza della fede cristiana, nell’animazione dei cenacoli del Vangelo e delle piccole comunità missionarie.
A questo punto non è difficile cogliere la saldatura tra gratuità ed evangelizzazione. Non c’è vero annuncio se non è accompagnato dalla gratuità. La gratuità disegna il volto umano di Gesù, e tratteggia il risvolto della nuova evangelizzazione. Nel discorso missionario di Matteo c’è un imperativo che non possiamo oscurare: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). La logica della gratuità investe il dare e il ricevere. Anzi, prima il ricevere e poi il dare. Perché non si può dare senza avere prima ricevuto. E non si può ricevere con la segreta intenzione di trattenere per sé, ma solo per dare gratuitamente a nostra volta.
Una conclusione. All’origine di tutto, della creazione e della storia, c’è l’amore gratuito del Padre, del Figlio e dello Spirito. L’intera realtà poggia sulla gratuità: non sull’interesse e sul guadagno, non sul rigidamente pattuito, non sulla obbligatorietà di una legge inflessibile o di un ferreo contratto. Il ‘tutto’ si fonda sul dono e sulla ‘economia del gratuito’.
E non tocca anche ai diaconi permanenti fare la propria parte – non esclusiva, certo, ma specifica e inalienabile – perché nella casa di Dio si aspiri sempre di più non il fetore della logica del calcolo e del mero profitto, ma si respiri il profumo del vangelo della gratuità e della gratuità del vangelo?
Rimini, Basilica Cattedrale, 23 ottobre 2016
+ Francesco Lambiasi