Giubileo della Misericordia di CL
Gesù è in cammino alla volta di Gerusalemme e i discepoli lo seguono. L’evangelista Luca ce lo ricorda in continuazione, e scandisce con particolare enfasi i passaggi in cui il fossato tra il Maestro e i suoi si va facendo sempre più largo. Ma da qualche capitolo, siamo ancora nel contesto della mensa. Gesù a tavola con pubblicani e peccatori ha rivelato ai farisei e agli scribi la misericordia del Padre (c. 15) e ha spiegato ai discepoli come viverla in concreto (c. 16). Ora, prima di cominciare l’ultima tappa del cammino, mostra come sia proprio la misericordia l’anima della comunità evangelica, in situazioni in cui perdura una penosa miseria. A questo scopo Gesù pronuncia due detti molto severi. Il primo è sullo scandalo perpetrato ai danni dei piccoli. Questo male, gravissimo perché induce il fratello al male, è il luogo tipico della misericordia. Ma poiché la comunità dei discepoli non è una setta di duri e puri, impenetrabile ai peccatori, è necessario usarci reciprocamente quella misericordia che il Padre usa con noi, perché noi a nostra volta la usiamo nei confronti degli altri. E’ il delicato ma pur sempre irrinunciabile messaggio della correzione fraterna, squisita espressione di misericordia vicendevole.
1. Come si vede, si tratta di parole molto dure, che lasciano i discepoli a bocca aperta e depositano nel loro cuore sacche di sgomento e di grave perplessità, con abbondanti sussulti di angoscia. Solo una reazione di pura fede può consentire un’accoglienza aperta e generosa nei confronti di messaggi tanto esigenti quanto sconvolgenti. Di qui l’invocazione accorata degli apostoli: “Signore, aumenta la nostra fede”. Nel testo originale l’invocazione risuona ancora più incalzante: “Dacci ancora”, dacci sempre la fede. La risposta di Gesù è sorprendente: basterebbe un granellino di fede per sradicare un grande gelso, saldamente abbarbicato alla terra, che neanche le tempeste riescono a divellere e tantomeno a trapiantare in mare. Nel passo parallelo di Marco (11,23), la sproporzione risulta ancora più vistosa e il paragone ancora più colorito: un granellino di fede può addirittura far volare una montagna verso una valle lontana. La fede non è dunque questione di quantità, ma di qualità. Ne basta anche poca, purché autentica. Perfino una dose infinitesimale di fede genuina è sufficiente per operare cose che diventano addirittura facili proprio perché obiettivamente impossibili. In effetti tutto è possibile a chi crede. Poiché credere è smettere di confidare in se stessi e lasciare che sia il Signore ad agire.
A pensarci bene, ognuno di noi che abbia una briciola di fede, ha visto mari svuotarsi per riempirsi di monti, popolati di gelsi. Ha visto cammelli passare per microscopiche crune di aghi. Ha visto pecore disarmate affrontare orde di lupi. Ha sentito di giovani perseguitati per la fede sostenere intrepidi la suprema prova del martirio. Ha saputo di omosessuali cristiani che percorrono con umiltà e passione i ripidi sentieri della castità evangelica. Ha conosciuto coppie di sposi perseguire con profitto cammini di riconciliazione e di misericordia reciproca. Ha incontrato tossicodipendenti, alcoolisti e carcerati restituiti all’altezza di una vita pienamente umana. Ha incrociato giovani capaci di donarsi totalmente e irreversibilmente al Signore per consacrarsi al suo servizio, a favore di comunità cristiane e di poveri.
2. A questo punto la parabola sul “servizio” non appare slegata o fuori contesto. Certo non è priva di risvolti francamente irritanti. Forse che Dio si comporta come certi padroni incontentabili, che stanno sempre lì a chiedere e a pretendere e non danno un attimo di respiro ai loro servitori? No, non è questa la prospettiva della parabola, che non ha affatto lo scopo di offrirci una immagine di Dio e del suo comportamento. Anzi la lettura del vangelo ci offre una immagine di Dio che è esattamente l’opposto di quel padrone fiscale e implacabile. I tratti del suo volto si sono rivelati nel comportamento di Gesù, che è venuto a servire, non a farsi servire (Lc 12,32) e che ha condotto una vita paragonabile a quella del cameriere che sta in piedi e serve, non a quella del padrone che siede a tavola e mangia (22,27). La breve parabola non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, ma quello dell’uomo verso Dio: un comportamento di piena disponibilità, senza calcoli e senza sconti, senza riserve, senza pretese e senza ricatti. Dio non è un bankomat, il servizio prestato a lui o in suo nome non è un cartellino da timbrare, e la fede non è una carta di credito da esibire. Alla fine della giornata di lavoro, non si tratta di dire: Siamo servi inutili, poiché il tuo, il mio lavoro è stato realmente utile. Si tratta invece di dire: Siamo semplicemente servi, niente di più, onorati per aver potuto fare un servizio che è effettivamente servito, appagati e abbondantemente ripagati per il solo fatto di aver potuto servire gratuitamente, senza aver affatto cercato il nostro “utile”.
Infine chiediamoci: come andrà a finire la storia? Alla sera della vita, il nostro dolcissimo, misericordioso Signore finalmente verrà e, beati noi, se ci troverà con il grembiule addosso, sempre pronti a servire. Beati noi, perché allora ci farà sedere a mensa e passerà a servirci. Beati noi, perché è infinitamente meglio sentirsi amati che ritrovarsi trattati da burocrati profumatamente stipendiati.
Poiché chi sarà stato misericordioso, non avrà alcun timore del giudizio di Dio. Infatti “la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio” (Gc 2,13).
Che il Signore ci renda tutti credibili e operosi artigiani di misericordia!
Rimini, Basilica Cattedrale, 1 ottobre 2017
+ Francesco Lambiasi