Omelia tenuta al Meeting di CL
Gesù è in cammino alla volta di Gerusalemme, e l’evangelista Luca non si stanca di ricordarcelo. Ormai, la decisione, Gesù l’ha già presa, e “a muso duro”, annota letteralmente l’evangelista (cfr Lc 9,51): la decisione di salire alla città santa non per organizzare la rivolta armata contro i Romani e restaurare il regno del santo padre Davide, ma per fare dono della sua vita, e così mostrare a tutti il vero volto di Dio. Un volto capovolto: non quello di un ‘padre-padrone’ che inesorabilmente castiga, ma il volto tenerissimo di un Abbà (= Padre-Papà), che misericordiosamente perdona. Ma ora, lungo la strada, un tale vuole registrare il parere del rabbi di Nazaret su una questione pungente: “Sono davvero pochi quelli che si salvano?“. La risposta di Gesù prende in contropiede l’anonimo interlocutore e vira con decisione su un imperativo incalzante: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché vi assicuro che molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”. Per Gesù il problema non è di “quanti si salvano”: non è una questione di numeri, come vorrebbe certa nostra invadente, superficiale curiosità. E’ una questione di vita.
1. La metafora della porta stretta è quanto mai efficace: la folla che vi si accalca è molta e la porta resterà aperta solo per poco tempo. Questo non significa che sono pochi quelli che riusciranno ad entrare, ma che per passarvi bisogna lottare e darsi da fare. Gesù vuole far capire che la conversione costa fatica, esige determinazione, domanda impegno serio e irrinunciabili sacrifici. Altrimenti la porta già stretta viene chiusa, e si resta incontestabilmente tagliati fuori dalla festa.
Ma allora chi sono quelli che troveranno sulla porta il cartello di divieto d’ingresso? Secondo Luca sono gli increduli giudei, contemporanei di Gesù. Essi avranno un bell’accampare diritti di sangue, in quanto discendenti di Abramo, ma già il Battista aveva gridato che Dio può suscitare figli di Abramo anche fra le pietre del deserto (Lc 3,8). Il sangue non salva; salva la fede. Non salva neanche la comunanza di mensa con Gesù (“Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza”); salva la condivisione del suo destino. E men che meno salva il puro avere udito gli insegnamenti del Maestro (“tu hai insegnato nelle nostre piazze”), se l’ascolto è stato solo un fatto di orecchi e non di cuore. Ma quello che è accaduto ai giudei del tempo di Gesù, può sempre accadere anche a noi cristiani.
Mai come oggi appare urgente convincersi che nessuno si salva soltanto perché “è cristiano”, quasi si trattasse di un privilegio di casta da presidiare con le unghie e con i denti. Nemmeno la partecipazione alla cena del Signore potrà essere brandita come un pass automatico per il regno di Dio. Non basta essere battezzati e stare nella Chiesa, se nella Chiesa si sta con il ‘corpo’, ma non con il ‘cuore’. Non basta partecipare formalmente ai riti prescritti né soddisfare puntigliosamente una minutaglia di precetti asfissianti e di odiosi divieti. Certo, non è affatto indifferente, per la salvezza, appartenere alla Chiesa. Ma se il dono immeritato di essere suoi figli viene interpretato come dovuto a presunti, inalienabili meriti individuali, e non vi si corrisponde con fedeltà e coerenza di vita, allora la grazia ottenutaci da Cristo “a caro prezzo” finisce per aggravare la nostra già grave responsabilità.
2. Il filo di questo ragionamento potrebbe portare a concludere che, se le condizioni di accesso al banchetto del regno sono così esigenti e perfino intransigenti, allora c’è poco da fare, poco da sperare. E invece il disegno di Dio è un capolavoro di misericordia. E si sviluppa non secondo la logica dello scarto, ma secondo la dinamica della sovrabbondanza: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio”. Resta però vero che la salvezza non può essere concepita come una condizione a cui si accede “in automatico”. Proprio perché è misericordioso, Dio non spadroneggia sulla nostra sovrana libertà: lui che “ha fatto te senza di te, non può salvare te senza di te” (s. Agostino). La salvezza è dono, non diritto; è una responsabilità, non un caso.
Infine, qual è il segreto per riuscire a passare per la porta stretta? E’ quello di farsi piccoli. Gesù un giorno ha detto: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). Ecco la via di accesso per entrare nella sala della festa: sgonfiarsi del proprio io extra-large; spogliarsi del proprio ingombrante egoismo; rinunciare a quella esaltazione di sé che umilia e offende il prossimo. E che non permette di dire a nessun fratello o sorella: “Tu sei un bene per me“, ma al contrario: “Tu sei per me una minaccia, una sfida odiosa, una fastidiosa pietra d’inciampo”. Dire invece: “Tu sei un bene per me” significa dire: “Prima tu, poi io”. Prima il tuo bene, poi il mio. Prima la tua gioia, poi la mia. Prima il tuo dolore, poi il mio. Significa scolpire sulla roccia il bene che con gratitudine ricevo da te e incidere sulla sabbia il bene che gratuitamente dono a te.
In questo anno giubilare della divina Misericordia, in molti siamo passati, e forse più volte, per la porta santa. Un passaggio che non è un puro rito: è un esigente segno di conversione da scrivere nelle nostre vite. La porta, lo sappiamo, è Gesù. E per la porta di Gesù non si passa per raccomandazione, per abitudini contratte, per meriti acquisiti, per privilegi ereditati. Non si passa per battaglie di principio, per millantate militanze di parrocchia, di associazione o movimento. Men che meno si passa per deliranti appartenenze ideologiche, ammantate di fede religiosa, che strumentalizzano il sacrosanto nome di Dio. Per la porta di Gesù si passa solo se ci si fa “piccoli” discepoli di Gesù. Se si accoglie sul serio il suo vangelo. Se si smette di giocare a fare i cristiani. Se ci si mette sulle tracce del nostro unico Maestro. Se guariamo dalle tristi patologie di una fede languida e asmatica. Se ci decidiamo una buona volta a dare la vita per i fratelli. Proprio come ha fatto lui.
Rimini-Fiera, 21 agosto 2016
+ Francesco Lambiasi