In memoria di “Franco” Perez
Il vangelo appena proclamato, l’abbiamo riconosciuto: era il vangelo di domenica scorsa, giorno in cui il nostro fratello buono, Francesco, per gli amici Franco, è stato chiamato al “santo viaggio”, diretto alla volta della casa del Padre nostro e di tutta la bella, grande famiglia dei beati del cielo. Mi raccontava la sposa, la nostra gentile e amabilissima sorella, Maria Chiara, che proprio questo vangelo è stato da lei letto in ospedale con i pochi intimi presenti, appena Franco ha chiuso gli occhi del corpo alla scena di questo mondo per aprire quelli del cuore al mondo di Dio.
1. Vorrei perciò rileggere con voi, carissima Chiara, dolcissime Maria Zita e Suny, carissime sorelle e fratelli tutti, il vangelo del servizio, – come potremmo intitolare il brano proclamato. Non vorrei però limitarmi a ripeterlo. Vorrei piuttosto declinarlo quasi in controluce, proiettandolo sul volto del nostro indimenticabile fratello Franco. Vorrei rileggerne i passaggi principali, ma non solo come parole dette da Gesù, bensì come sottoscritte a due mani dallo stesso Franco. Infatti Franco è stato un autentico uomo del servizio: si è donato anima e corpo alla famiglia, si è speso nel lavoro a scuola come insegnante di religione al Liceo Giulio Cesare Valgimigli, si è prodigato nel servizio volontario nella comunità parrocchiale e nel centro diocesano, come collaboratore dell’Ufficio Catechistico e docente all’Istituto Superiore di Scienze religiose, Alberto Marvelli. Franco si è dedicato anche al servizio della causa della pace, come promotore del primo convegno nazionale per il servizio civile e il volontariato femminile. E’ stato, poi, uno dei primi collaboratori di radio Icaro e del nostro settimanale diocesano ilPonte. Ma si è impegnato anche nel promuovere la libertà e la dignità delle donne (circola ancora su Internet una sua intervista sulla piaga del triste fenomeno della prostituzione a Rimini). Ritorniamo allora sul brano evangelico del servizio e pieghiamoci sulle prime e ultime parole di Gesù lì riportate, così come sono echeggiate in quel “quinto vangelo” qual è il vangelo scritto da ogni generazione cristiana, anche dalla nostra. E così come quelle sante parole di Gesù sono state tradotte nella lingua della vita di Franco.
2. “Non temere, piccolo gregge”. Queste primissime parole del testo sacro aprono una finestra nel cielo e ci spalancano le porte del cuore. Quante volte le pagine della Bibbia vengono scandite da questo ritornello martellante: “Non temere, Abramo. Non temere, Mosè. Non temere Davide. Non temere, Elia. Non temere, Israele”. Un rabbino ne aveva contate ben 366 ricorrenze nell’AT e aveva concluso che questo invito pressante – Non temere ! – è come il buon giorno di un papà (Dio) ad ognuno di noi suoi figli, per ognuno dei 365 giorni dell’anno solare, con uno in più per il 29 febbraio dell’anno bisestile. Sì, il nostro Dio non è il Dio della paura e del terrore, non è un inguaribile guastafeste, un accanito maniacale mangiafuoco. No, non è un Giove neroniano, fiscale e implacabile, bizzarro e perennemente incavolato, con un bel fascio di saette in mano, pronto a scagliarle a suo capriccio e piacimento.
Gesù di Nazaret è venuto in mezzo a noi per aiutarci a non sbagliarci su Dio, e ci ha rivelato i “segreti di famiglia”. Ci ha detto che il Padre suo e Padre nostro ha il braccio forte di un babbo e il cuore ardente di una mamma. Gesù ci ha confidato che il biglietto da visita dell’unico vero Signore del cielo e della terra porta stampate proprio queste due semplicissime parole: “Non temere!”. Questo messaggio di fiducia è la password che ci apre i portali delle reti indispensabili per vivere una vita all’altezza della nostra umanità. Questo messaggio di fiudcia ci raggiunge nella solitudine del dolore, nei giorni della fatica e della festa, nelle notti del successo e del fallimento. E’ come se il Padre dei cieli ci dicesse: Non temere, figlio mio: il dolore è il travaglio del parto, non è il rantolo dell’agonia. Non temere, figlia mia: la fatica non sarà per sempre, e, poi, basta a ogni giorno la sua pena. Non temete, figli miei, la festa quaggiù prima o poi finirà, ma se la vivrete come un anticipo della festa senza fine, non vi lascerà con il retrogusto dell’amaro più amaro in bocca. Non temere, tu sorella, tu fratello mio, dice Gesù, non temere neanche il giorno della morte, perché anche se in un istante verrai privato dei doni del Donatore, questo avverrà per poter essere arricchito per sempre dall’abbraccio con il Donatore dei doni.
Il messaggio “Non temere, piccolo gregge” è un messaggio “datato”, non nel senso negativo che sia superato o fuori moda, ma in positivo, e cioè nel senso di messaggio pienamente attuale, poiché riporta la data di questi tempi e dei nostri giorni. In effetti ci viene rilanciato in questo tornante della storia, sempre più buio, insanguinato e violento, in cui mentre tanto sangue “occidentale” viene versato, l’immagine del nostro Occidente, spompato e in fase di pre-collasso, continua ad essere inquinata da pregiudizi, ipocrisie e violenze tanto più odiose quanto più subdole. “E’ insensato che l’Occidente insista nel difendere volgarità, maldicenze, pornografia, pornolalia, blasfemie, bestemmie, invocando la libertà di pensiero, come se non si sapesse che in tal modo si umiliano le profonde ragioni della libertà”, ho trovato scritto in un editoriale di Avvenire di domenica scorsa. E’ assurdo che si vogliano far passare per retrogradi e oscurantisti quanti – e noi siamo tra questi – non si rassegnano ad accettare il principio stesso del matrimonio “egualitario”. E’ ridicolo che nell’epoca della globalizzazione si pretenda di cambiare usi linguistici plurimillenari di parole semplicissime come “moglie” e “marito”, “padre” e “madre”, sostituendole, con un’ambiguità irriducibile, con formule astruse, quali “genitore n. 1” e “genitore numero 2”. Ammettiamolo francamente: questo non è stato l’ideale di famiglia che ha aiutato Franco e Chiara a costruire la splendida famiglia che tutti possiamo contemplare.
Sia chiaro. Dire queste cose non significa legittimare il terrorismo contro l’Occidente. Significa semplicemente che non si può rispondere alla cultura del terrore con la cultura del niente. La cultura del niente non genera figli, produce mostri, i mostri bestiali e crudeli del terrorismo più spietato. D’altra parte l’unico solvente veramente efficace della paura è la fede, la cui ala batte insieme con quella della ragione. E qui è giusto che il prof. Francesco Perez salga in cattedra e ci aiuti a sfatare un altro equivoco che intossica tanti pensieri di tanti nostri contemporanei, come è il cattivo pensiero che chi crede non pensa e chi pensa non crede. Sì, è la fede, la più potente alleata di una ragione che ragiona, che ci guarisce dalla sindrome della paura. Lo esprimeva Martin Luther King, con un apologo tanto caro a Vittorio Bachelet, martire delle BR, negli anni di piombo del terrorismo nostrano. “Un giorno la paura bussò alla mia porta. La fede andò ad aprire. Non c’era nessuno”.
E’ stata questa fede di buona lega da cui Franco ha imparato a vivere bene il male di una malattia lunga e devastante, riuscendo, con eroica forza d’animo, a non farla pesare ai suoi cari. Mai un lamento, mai un moto di recriminazione, e meno che mai un sentimento di disperazione! Dalla fede-fiducia in un Dio Abbà, Padre forte e tenero, Franco ha capito una verità preziosa: è meglio morire da vivi che vivere da morti. Alla scuola del vangelo Franco ha guadagnato la certezza che “noi siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli” e che chi non ama è già morto e rimane congelato nella morte del cuore. Dalla sapienza dei santi – i campioni dell’amore per Dio e per i fratelli – Franco ha imparato a superare ogni paura, tranne una, la paura più seria. Questa: non è tanto la paura che la vita possa finire, ma che possa finire senza che si sia mai cominciato a viverla veramente.
E veniamo ora brevemente alla parola finale del “vangelo di Franco”.
“Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli“. Quando si parla di questa necessità di vigilare e di stare pronti, si può cadere facilmente in un abbaglio: è l’equivoco di pensare che tutto ciò si riferisca alla venuta finale di Cristo, quella che si realizzerà alla fine del mondo e, per ognuno di noi singolarmente preso, nella nostra morte. Ma se c’è una venuta di Cristo che avverrà nell’ultimo giorno, ce n’è una che avviene ogni giorno. E’ la venuta silenziosa in cui il Signore viene e bussa discretamente alla nostra porta con la sua parola, con una ispirazione, un avvenimento, una sofferenza…
Ricordo di aver visto nella cattedrale di san Paolo a Londra un famoso quadro che raffigura Cristo che bussa ad una porta, davanti alla quale sono cresciuti rovi ed erbacce. Ma la porta non si apre e Cristo continua ad aspettare. Pare che qualcuno abbia fatto notare al pittore, in genere molto preciso e meticoloso nei dettagli, che c’era tuttavia un errore nel suo quadro. In effetti si vede il buco della chiave, ma non c’è traccia di maniglia. Il pittore avrebbe risposto: “Ma io l’ho fatto apposta. La maniglia c’è, ma è all’interno”. Come a dire: dobbiamo essere noi ad aprire a Cristo, il quale bussa per entrare, ma non sfonda mai la porta. Leggiamo nell’Apocalisse: “Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (3,20). Un’avvertenza però: spesso Gesù si presenta in incognito, o addirittura travestito. Non come lo si vede nel quadro descritto prima, con i capelli alla nazarena, la corona di spine, il manto regale, ma nei panni del povero, del bisognoso, del sofferente. Ma perché sono beati i servi che il padrone troverà ancora svegli? Perché il padrone “li farà sedere a mensa e passerà a servirli”. Parola del Signore. Lode a te, o Cristo, che non hai trovato Franco con la lampada spenta e l’hai ammesso al banchetto della vita
Caro Franco, tu oggi ci consegni l’immagine clamorosa che solo Gesù ha osato consegnarci: quella di Dio nostro servitore. E’ l’immagine che solo Gesù ha interpretato, cingendosi ai fianchi un asciugamano, chino davanti ai nostri piedi. Questo Dio è il solo che tu hai servito in noi – familiari, amici, colleghi, poveri – tutti i giorni e tutte le notti della tua vita. Tu oggi ci dici: Il Dio che ho servito si è fatto servitore della mia gioia e, se vi troverà desti, pronti, fedeli e disponibili, si farà servitore anche della vostra gioia, per sempre”.
Parola di Franco, sorelle e fratelli miei.
Grazie a te, Franco, per avercelo ricordato.
Rimini, San Raffaele, 9 agosto 2016
+ Francesco Lambiasi